L’Institut des Sciences et Techniques de l’Antiquités si distingue una volta di più per la pubblicazione di un fascicolo relativo alla gromatica antica e Jean Peyras prosegue nella riproposizione di scritti di agrimensura che elementi interni (vocaboli pertinenti ad unità monetali, espliciti rimandi testuali a figure storiche) consentono mediamente di collocare nella seconda metà del IV secolo d. C., da Valentiniano a Teodosio, pur con segni evidenti di una stratificazione testuale risalente alla piena Repubblica e con rimandi alla cultura etrusca.
Poche pagine introduttive, per le quali si dichiara una continuità con il lavoro di ricerca più consistente, pubblicato nel 2008 (Arpentage et administration publique à la fin de l’Antiquité. Les écrits des hauts fonctionnaires équestres, textes établis, traduits et annotés par J. Peyras, Besançon 2008), lasciano lo spazio al testo latino con traduzione a fronte e note di commento. Riferimenti bibliografici ad una produzione critica prevalentementre francese sono integrati da considerazioni personali dell’autore.
La pubblicazione non sarebbe valutabile da sola poiché, avanzando nelle pagine, appare evidente che molte delle ipotesi formulate riprendano più ampie dimostrazioni contenute nel volume sopra citato. Non disponendo però di esso, i risultati esposti in forma riassunta in questo libretto tendono a renderne difficile la lettura e la comprensione. Sin dal titolo colpisce l’uso della parola ‘documents’, per degli scritti che in realtà non sono testi avviati, svolti e conclusi nello spazio di poche pergamene, ma estrapolazioni di più estesi elaborati di tipo tecnico, purtroppo non pervenuti integralmente nei codici. Si cade pertanto in contraddizione, poiché si vuole da un lato trattare compiutamente vere e proprie opere, per quanto ridotte a lunghe citazioni, e si pretende dall’altro di ridurle ad attestazioni sciolte di tecniche e consigli pratici, poco o a malapena chiariti nella loro articolazione ed applicazione.
Il problema che si determina nel libro deriva dal mancato esame di tali scritti in relazione reciproca e funzionale. Li si isola e si sezionano, quasi a cercare di capirne l’origine e la pertinenza a qualcosa di più ampio respiro, ma non se ne colgono motivi, destinazione e prodotto, resi evidenti da una loro riduzione e ricombinazione in nuovi scritti, tramandati dai codici.
Quel che il curatore ha testualmente “stabilito”, per un orientamento personale non spiegato, è di assumere per buona la versione di Lachmann, Bruhne e Mommsen (i due volumi sui Gromatici Veteres) nel 1848, traendo spunti critici o conferme dal solo confronto con il Goes. Si tradisce così l’aspettativa di realizzare un’edizione che sia realmente filologica, con il riscontro ed il confronto diretto dei codices artis mensoriae, scelti e verificati secondo la propria capacità, sensibilità e conoscenza dei territori di cui tali codices vanno a parlare, indirettamente o nominandoli direttamente.
Dispiacerebbe se il criterio adottato fosse il medesimo seguito in Inghilterra da Brian Campbell, che nel 2000 (Journal of Roman Studies, monograph, 9) ha edito il volume The writings of the roman land surveyors con tanto di Introduction, text, translation and commentary. Ha usato una versione dei testi latini non giustificata in alcuna parte, priva di un apparato critico che alluda ad una rivisitazione dei manoscritti eletti a riferimento, e si è lanciato nella traduzione senza neanche conoscere il territorio italiano. L’interpretazione dei vocaboli latini è talvolta priva di un’effettiva corrispondenza con quanto la ricerca archeologica, incrociata con quella topografica antica e medievale dalla stessa British School at Rome, ha permesso di riscontrare materialmente e talune identificazioni per il cosiddetto Liber Coloniarum sono azzardate. Il palese risentimento dell’autore per qualunque occasione nella quale, nei lavori successivi, non sia stato citato (a suo favore, soprattutto per evitare di commentarlo negativamente), ha trovato da parte sua soddisfazione nel non citare a sua volta gli altri e determinato nei suoi scritti una sorta di sensazione di isolamento scientifico, curioso nel contesto di un nutrito panorama di lavori che per la Classicità si susseguono, in Italia e in Francia, nel fare luce sulle molteplici realtà illustrate dai codices.
Nel testo del Peyras i manoscritti originari sono ricordati per senso del dovere ma non rivestono alcuna importanza effettiva. Eppure si tratta dei vettori principali, ed unici, di opere altrimenti perdute, risalenti alla prima e alla tarda età imperiale e molto rimaneggiate da successivi intermediari e fruitori dei contenuti (la prima tradizione manoscritta). A parte il nome rimangono spesso poco noti nell’identità, salvo ammetterne l’appartenenza agli agrimensori professionisti che operino nei territori su incarico di privati, o della pubblica amministrazione, e per un tempo molto più lungo di quanto non si voglia ammettere.
Il Peyras sembra orientato nel privilegiarne il contenuto secondo una visione classica, rivolta tutta ai secoli dell’impero romano e non ai successivi, nei quali i medesimi testi, così come sono a noi giunti, si evolvono. Naturalmente si esprime un’opinione sul lavoro svolto, non un giudizio, e si lascia aperta ogni possibilità di confronto e discussione sull’argomento trattato, che solo in apparenza è semplice.
Gli scritti di agrimensura non sono un campo nel quale esercitarsi in finezza nella disquisizione. Sono opere di cui è prioritario capire e applicare nella realtà i contenuti, avendo esse una destinazione fortemente pratica, riconosciutagli ancora nella Tarda Antichità e nel Medioevo, con una rielaborazione ed adattamento che si protrae agli inizi del secolo IX e con una riproduzione e tradizione attraverso i manoscritti che solo nel XIV secolo conosce una brusca interruzione (L. Toneatto, Codices artis mensoriae. I manoscritti degli antichi opuscoli latini di agrimensura (V-XIX sec.), [Testi, studi, strumenti, 5], Spoleto 1994, vol. I, pp. 13-55).
In apertura di queste poche righe si è parlato di una “riproposizione” da parte del Peyras, e non di una “edizione”, perché non si è di fronte ad un’edizione dei testi selezionati, ma alla riproduzione acritica di versioni accettate dall’uso comune, sebbene poi ci si sforzi di applicarvi modalità di commento, adatte però solo a lavori di restituzione filologica dei testi.
Sull’affidabilità delle note potrebbe valere in senso negativo l’interpretazione semplificativa, e venata da sfumature categoriche, data dall’autore alle casae litterarum, dove ciascuna lettera costituirebbe l’iniziale di un toponimo prediale (epsilon per Aemilianus). Tale lettura, basata su una sola corrispondenza testuale e non su una norma dichiarata dall’agrimensore, è sintomatica della facilità con la quale si trasformi una coincidenza in una certezza e si ritenga superfluo qualunque altra ricerca di prove, archeologiche e non unicamente testuali, del ripetersi del medesimo accostamento tra littera e prediale.
Una volta di più, purtroppo, gli scritti di agrimensura sono trattati al pari di un testo di retorica, da isolare nel tempo e nello spazio, limitandosi alla contemplazione della forma e non procedendo invece alla piena applicazione dei contenuti. Le possibilità non mancherebbero, soprattutto grazie al lavoro svolto già da quegli studiosi e ricercatori che l’autore cita nei ringraziamenti finali ma, almeno qui, non approfondisce nella conoscenza dei territori da essi indagati. Il passaggio sarebbe stato, ad esempio, utile per vedere se in essi l’applicazione dei principi enunciati dagli agrimensori abbia aiutato a capire le ragioni del decadimento di uno schema agrario e la trasformazione in un altro.
Tali principi sono la risposta che istituzioni di governo e figure (gli agrimensori), presto e volutamente non più comprese nelle modalità adottate per operare sul campo, danno ad un mondo in corso di forte cambiamento ambientale, politico ed economico. L’amministrazione centrale, assieme al moltiplicarsi delle iniziative locali, cerca risposte ed ancoraggi solidi partendo dalla terra. Le esigenze fiscali sono precedute dal bisogno di non essere travolti dalle trasformazioni dello spazio fisico, nel quale il desertus, sinonimo di ‘trascurato, incolto, lavorato ma non popolato’, si affianca all’incidenza avuta da fenomeni naturali sempre più intensi e ricorrenti in una fase di transizione climatica, preludio ad un vero e proprio cambiamento. Alluvioni e conseguente aggiustamento dei termini per azione diretta di privati e speculatori, che agiscono senza attendere l’intervento delle autorità e dei tecnici preposti, costituiscono la nuova prassi e la reazione ad uno spazio in precedenza lavorato e poi in molte parti tralasciato, con conseguenze disastrose (G. Traina, Ambiente e paesaggi di Roma antica, [Nuova Italia Scientifica, 12], Roma, 1990, pp. 89-121).
Mettendo a confronto la portata dei fenomeni sul lungo periodo e lo sforzo per farvi fronte messo in atto dai governi (romano, ostrogoto, bizantino, longobardo e franco) avvicendatisi in Italia, con il recupero e la trasmissione di scritti di agrimensura appositamente selezionati in risposta a problemi concreti manifestatisi in territori reali e non di fantasia, destano perplessità le parole conclusive dell’introduzione del Peyras. I contenuti espressi nel corpus mensorum, sintetizzati anche nella citazione del vocabolo limitatio, sarebbero infatti una breve parentesi ininfluente per il territorio, a cui far seguire il modello organizzativo delle campagne per pagi, in uno spazio non più vincolato da divisioni agrarie superate e che agevoli lo sviluppo della feudalità.
Peccato però che la centuriazione si sia a lungo conservata in Italia e nelle province, presupponendo che qualcuno l’abbia mantenuta per qualche motivo, e che spetti ai Carolingi il merito di aver importato in Francia i codici dei manoscritti di agrimensura. C’è da domandarsi per farne cosa, visto che la feudalità successiva si dovrebbe essere ispirata ad altro, secondo quanto si conclude nel libro.
Stefano Del Lungo, CNR-IBAM
mis en ligne le 28 janvier 2016