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Il volumetto è lo stesso che, pubblicato per la prima volta nel 1959 dal Club Français du Livre, fruì nel 1969 di una seconda edizione invariata e aggiornata nel repertorio bibliografico con appena cinque nuovi titoli. Di questa, già nel 2011 era venuta fuori una ristampa (con un’insulsa integrazione, curata da un anonimo, di sei testi sui gladiatori e due sulle rivolte servili, apparsi entro il 2002), cui quella in oggetto segue senza differirne, se non nel formato (ridotto) e nella qualità (peggiore) della carta. In via preliminare, dunque, non se comprende la necessità se non con la richiesta di una nuova tiratura, divenuta nel frattempo pressante, da parte dei lettori interessati all’argomento.

Il titolo suona sempre abbastanza improprio, quando si osservi che al gladiatore e alle sue imprese sono dedicati solo i capitoli 11-12, per un totale di 43 pagine (200-242) sulle 252 di cui si compone l’intera trattazione. Essa, infatti, parte da lontano, dedicandosi inizialmente a definire il ruolo del senato patrizio-plebeo (in breve, della nobilitas) quale era venuto a formarsi nel III-II secolo a.C. nel corso della conquista dell’Italia prima e del Mediterraneo poi.

B. osserva come la nobilitas si fosse chiusa in se stessa (pur con fisiologici dissidi interni, che tuttavia non ne intaccavano l’intrinseca solidarietà) a difesa dei propri privilegi, senza tener conto del malcontento dei cittadini romani, costretti, anche dopo la guerra annibalica, a restare a lungo sotto le armi, per soddisfare l’inusitato sforzo imperialistico della res publica. Tale sforzo, infatti, comportò l’inesorabile depauperamento delle fasce sociali inferiori o subalterne, soprattutto dei piccoli proprietari terrieri, ai quali il prolungamento della ferma militare e la perdurante assenza dai campi costò, una volta tornati in sede, l’indebitamento e, in caso di insolvenza, la perdita dei terreni (la diagnosi del problema è, in tutta evidenza, ricalcata su Liv. 28, 11, 8 s.). È curioso, comunque, che B., quando si sofferma sulle confische di terre operate dal senato a danno degli Italici che si erano schierati con Annibale, ricordi solo le sanzioni cui furono soggetti i Galli della pianura padana e non anche quelle, ben più pesanti, comminate ai Bruzi, che del Cartaginese erano stati irriducibili alleati fino alla conclusione della sua avventura in Italia.

Alla cecità del senato, dunque, va giustamente addebitata la mancanza, nel corso del II secolo, di una politica agraria e coloniaria in grado di rimettere in sesto, attraverso un’equa redistribuzione dell’ager publicus, l’antica compagine statale strutturata sulla piccola e media proprietà contadina. Beninteso, non è che l’oligarchia impedisse tutte le iniziative coloniarie miranti ad alleggerire la pressione esercitata dalle classi più stravolte dall’infinita parentesi bellica; ma il modo di procedere in tal senso fu strumentale, giacché si osservò il principio utilitaristico di dedurre a grande distanza dalla capitale le colonie più popolose e più vicino quelle numericamente ridotte (per es. nella Campania), sulle quali poteva esercitarsi il diretto controllo dalle famiglie senatorie più influenti.

B. sostiene che la distruzione di Cartagine e di Corinto costituì per Roma uno stimolo a rilevare anche le rispettive attività mercantili e ad aprirsi a colture specializzate più redditizie (in primis quella della vite e dell’olivo) rispetto a quelle tradizionali; ne conseguì, dunque un forte aumento nella richiesta di manodopera servile che ‘di fatto’ pose le basi del sistema schiavistico romano. Ciò è innegabile, ma è dubbio che il miglior testimone ne sia l’opuscolo sull’agricoltura di Catone, che B. (p. 28) chiama in causa al proposito, per farne il teorico della produzione in eccesso da piazzare sul mercato. L’azienda catoniana, infatti, prelude sì alla nuova vocazione produttiva della villa, ma è ancora quella del contadino-soldato, che torna non appena può a lavorare il campo di sua proprietà insieme agli schiavi (cfr. Plut. Cat. mai. 3, 2); e l’economia che presuppone è ancora ‘mista’, cioè di mercato e di sussistenza insieme. Peraltro non è escluso che in funzione del mercato si potessero ottenere profitti ancor più congrui e sicuri dalla coltivazione estensiva dei latifundia; e i proprietari di estrazione senatoria che erano riusciti ad accaparrarseli o a ingigantirli, non dovettero tardare molto a capirlo. Se, dunque, in certe regioni ne derivò una progressiva rinuncia, e di quale portata, alle stesse colture di pregio, ben più dispendiose, è una questione che B. forse avrebbe dovuto porsi.

Parallelamente ‒ continua B. ‒ l’afflusso di capitali derivanti dallo sfruttamento delle nuove province portò all’ascesa degli equites, venuti a supplire, come publicani, all’assenza di un apparato amministrativo che, se la res publica se ne fosse dotata, avrebbe resa impossibile la loro nascita. Il peso sociale rapidamente acquisito da questa classe di affaristi, la impose anche come alternativa politica alla nobilitas, dato che oltre alla manodopera servile, impiegata sempre più diffusamente nei campi e nei pascoli, essa introdusse una riserva di ‘tecnici’ per tutte le branche dell’attività umana, i quali, se da un lato contribuirono a far uscire la repubblica imperiale dalla propria arretratezza, dall’altro divennero il distintivo della vita lussuosa e dissipata dei ‘rentiers’ e il motivo di attrazione dei liberi diseredati venuti dalle campagne a offrirsi come clientes a nuovi e più generosi patroni. L’allusione è à ce commerce particulièrement infâme (p. 46) qual era quello degli schiavi da addestrare in funzione di munera o di ludi gladiatori; donde la paradossale affermazione di B. che in fin dei conti Tiberio Gracco fu vittima del proletariato urbano composto des oisifs et de parasites, assecondato dalla nobilitas nel piacere di assistere a quel genere di passatempo.

L’accenno alla popolarità degli spettacoli gladiatori e alla loro diffusione nel II secolo (che forse a Roma non è ancora quella immaginata da B.) rimane tuttavia isolato, giacché il Nostro torna immediatamente a intrattenersi sulla schiavitù legata alla proprietà terriera, in particolare quella siciliana, i cui proventi derivavano dall’allevamento praticato su larga scala più che dall’agricoltura. Sarebbe stato Catone, con la sua gretta visione del profitto e il suo consiglio ai proprietari di lesinare al massimo le spese per il mantenimento del personale servile, a ispirare il comportamento dei possidenti siciliani, riconducibili alla figura di quel Damofilo di Enna, che fu il primo a cadere sotto i colpi degli schiavi imbestialiti dalle condizioni disumane in cui erano costretti a sopravvivere sui pascoli, lontano dai centri abitati. Furono questi, infatti, i promotori della rivolta che dal 139 (o già dal 140, data per cui B. propende) infiammò gran parte dell’isola. Li guidava, secondo la narrazione di Posidonio filtrata da Diodoro Siculo, Euno, uno schiavo di origine siriana che si diceva ispirato nella sua azione dalla dea Siria (Atargatis). Costui, coadiuvato da Cleone, uno schiavo di origini cilicie attivo nella parte sud occidentale dell’isola, riuscì a raccogliere sotto di sé una moltitudine di circa duecentomila schiavi (la cifra è della stessa fonte e B. le dà credito senza chiedersi se abbia esagerato) e a organizzarli tanto bene, sul piano militare, da infliggere una serie di umilianti sconfitte ai magistrati locali. In seguito, assunto significativamente il nome di Antioco, istituì una sorta di regno separatistico, per cui il senato dové impegnarsi non più in una semplice operazione di polizia, ma in un’autentica guerra; e se alla fine Rupilio, nel 132, ebbe ragione anche delle ultime sacche di resistenza, fu perché ‒ a detta di B. ‒, caduta Numanzia, gli furono messe a disposizione truppe meglio addestrate rispetto a quelle che avevano servito sotto i predecessori, Gaio Fulvio e Calpurnio Pisone. Nondimeno è lecito ritenere, più di quanto non piaccia a B., che la vera causa del ritardo nella repressione fosse la scarsa qualità non delle milizie romane inviate ad affrontare i ribelli (questa è la facile giustificazione addotta dalle fonti), ma dei loro comandanti; v’è, quindi, ragione di credere che Rupilio rispondesse meglio degli altri alle esigenze del momento.

È verosimile che fosse anche l’intenzione di scongiurare il ripetersi di analoghi fenomeni eversivi a indurre Tiberio Gracco a varare le sue riforme, pur a costo di introdurre all’interno della nobilitas di nuovo un motivo di frizione e di dissidio. ‘Di nuovo’, perché ‒ come B. opportunamente ricorda (pp. 78-80) ‒ già nel 145 era passata una legge di Publio Crasso tesa a limitare l’estendersi incontrollato del latifondo e a ricostituire il ceto dei piccoli proprietari; essa, però, era rimasta sulla carta, per via del contenzioso aperto nelle varie sedi giudiziarie dai possidenti a danno dei quali si applicava. Del resto, anche quell’Ottavio collega di Tiberio nel tribunato e da lui fatto decadere con l’inusitato ricorso al voto dei comizi tributi, non sarà stato che un uomo di paglia funzionale agli interessi dell’oligarchia; e B. ha ragione nel sostenere che questa fu molto abile nel servirsene, per poi sacrificarlo senza forzare la mano sull’eventuale illegalità del provvedimento (una questione spinosa e pressoché irrisolvibile, su cui B. prudentemente sorvola). Attese, infatti, che Tiberio uscisse a sua volta di carica per sobillargli contro le proprie consorterie clientelari e innescare gli eventi che lo portarono a soccombere insieme al suo maladroite tentative insurrectionelle (p. 104).

Se il giudizio di B. sul tribuno pare un po’ appesantito (v. p. 98 ss.) da un’istintiva antipatia (in parte ispirata dalle fonti a lui avverse) più che dall’obiettivo bilancio della sua attività, quello su Gaio è invece più condiscendente, avendo questi mostrato una più solida tempra nel dar séguito al programma del fratello. E questo già dal suo esordio politico nel 132, quando nella veste di commissario per l’applicazione della riforma, egli si era segnalato per la sua determinazione nel colpire gli interessi degli avversari in Campania, la regione che essi si erano tenuta come area ‘riservata’ nella corsa alla spartizione dell’ager publicus. Si capisce, dunque, perché entrato in carica si sarebbe trovato maggiormente esposto alle ritorsioni degli agrari; a questi infatti, si affiancavano ora i provinciali avversi alla riforma, i quali surrogavano la propria forza da quella dei loro omologhi romani, uniti contro il tribuno dalla solidarietà di classe. Gaio, peraltro, non poteva contare nemmeno sull’appoggio delle plebi rurali italiche perché, ritrovatesi escluse dai benefici delle leggi di Tiberio, avevano protestato a Roma con l’autorevole appoggio di Scipione Emiliano. Il senato, allora, aveva avuto gioco facile nel trasferire le competenze dei commissari ai consoli, sapendo che, questi ultimi, assenti dalla capitale, non avrebbero potuto oggettivamente adempiere il nuovo compito e di conseguenza la riforma ne sarebbe stata affossata. La contromossa di Gaio, per recuperare almeno il consenso dei provinciali, ossia la legge di Fulvio Flacco che concedeva loro la cittadinanza, era abortita con l’assassinio di Fulvio e la distruzione di Fregelle come monito alle altre città a non rivoltarsi anch’esse.

L’avvento al tribunato del più giovane dei Gracchi, l’anno successivo (il 123), segnò, dunque ‒ a giudizio di B. ‒ una vigorosa ripresa del programma di Tiberio, con il marcato intento di jeter les bases d’une véritable démocratie de type athénien (p. 130). Il che, tradotto in termini più concreti, significherebbe non tanto, o non più, l’impegno di ripristinare la piccola proprietà contadina, quanto di muovere guerra aperta all’oligarchia; la stessa lex frumentaria fatta varare contestualmente si paleserebbe come un’offerta demagogica di panem et circenses all’oziosa plebe urbana, mirante a sottrarre clienti alle fazioni nobiliari più in vista. Vero è, però, che, se mai l’obiettivo fu raggiunto, sortì l’effetto contraddittorio di distogliere gli aventi diritto dal partecipare alla spartizione dei lotti liberati dalla legge agraria e di farne naufragare il progetto. In definitiva non si direbbe ‒ e bene fa B. a rimarcarlo ‒, che le manovre di Gaio fossero improntate a istanze ‘rivoluzionarie’, atteso che la Campania concupita dalla nobilitas fu esonerata dalle esazioni di ager publicus e vi fu dedotta la sola colonia di Capua. Quanto alla legge giudiziaria, una modifica estromise dalle liste dei giurati gli equites che esercitavano un’attività commerciale, ma non anche quelli che godevano di redditi fondiari; per cui, tornati di fatto i tribunali sotto il controllo dei proprietari terrieri, l’applicazione della legge agraria ne uscì fatalmente compromessa (tant’è che nel 111 o nel 109 sarà abolita).

Se, pertanto, questi provvedimenti di Gaio miravano, senza scontentare gli affaristi, a stemperare l’opposizione del senato, il suo errore è evidente; ed è difficile dissentire da B. quando sostiene che l’avversario ne uscì rafforzato senza avergli concesso alcuna contropartita (si pensi, ancora, alla cassazione della legge che consentiva di dedurre una colonia sul suolo ‘maledetto’ di Cartagine).

Con l’ascesa di Mario la corsa della classe equestre all’accaparramento di terre, in competizione con l’oligarchia senatoria, ridà slancio al mercato di manodopera servile, di cui, comunque, non si direbbe vi fosse stata carenza negli ultimi anni. B. (p. 159) ne trova acutamente un indizio nella caustica risposta inviata al senato da Nicomede II di Bitinia, di non poter contribuire, come richiestogli, alla guerra contro i Cimbri e i Teutoni, perché tutti gli uomini validi gli erano stati sottratti dagli appaltatori delle imposte e si trovavano prigionieri a Roma (una denuncia non tanto velata della collusione dei trafficanti italici con i pirati che allora imperversavano nelle acque del Mediterraneo). In ogni caso, la vittoria di Mario e la massiccia immissione di prigionieri cimbri e teutoni sul mercato, la richiesta di schiavi dové essere in buona parte soddisfatta, giacché la legge senatoriale che obbligava a rimettere in libertà gli schiavi provenienti da regni e comunità alleati di Roma non avrà certo avuto la pretesa di controbilanciarla.

In Sicilia ‒ dove B. torna a puntare lo sguardo, dopo averlo a lungo mantenuto sulle convulsioni politiche della capitale ‒ la legge in questione sarebbe stata applicata con zelo fin eccessivo dal pretore Publio Licinio Nerva, sì da far insorgere l’élite fondiaria locale, cui veniva a mancare ‒ era questa la giustificazione addotta ‒ una cospicua parte della forza lavoro essenziale perché l’isola continuasse a svolgere il proprio ruolo di ‘granaio di Roma’. La ventilata minaccia di stroncarne le ambizioni (aspirava, infatti, al consolato) avrebbe così indotto Nerva a restituire ai proprietari i prigionieri già liberati. Da qui la scintilla, nel 104, della seconda rivolta, che del resto, non avendo la prima insegnato nulla ai padroni, quanto all’opportunità di assicurare agli schiavi condizioni di vita meno brutali, covava sotto la cenere. Questa volta a unire i ribelli sotto le sue insegne fu Salvio ‘Tryphon’, al quale, con insospettabile acume tattico, subordinò le proprie velleità di leadership uno schiavo ‘astrologo’ di origini cilicie, Atenione. Sotto la guida di entrambi, gli insorti, comunque ben presto costretti sulla difensiva da Lucio Licinio Lucullo, succeduto a Nerva, e poi da Gaio Servilio, resistettero ai Romani fino all’arrivo di Manio Aquilio, il collega di Mario nel suo quinto consolato (a. 101).

B. spiega il fallimento del nuovo moto insurrezionale rilanciando la tesi di Carcopino, secondo cui, a differenza del precedente, esso non attecchì nell’est della provincia e proprio per merito dello stesso Nerva, il quale, obbligando i padroni a rispettare la legge graccana, avrebbe scavato un solco fra la schiavitù relegata sui pascoli e quella rurale, il cui tenore di vita era meno disumano.

Se si vuole, anche la minor durata del fenomeno lascerebbe sospettare che fosse venuto meno ai rivoltosi l’apporto delle campagne; tuttavia la spiegazione pare poco attraente, sia perché in realtà esso ebbe un campo d’azione più esteso rispetto alla prima volta, sia perché prese le mosse dal territorio di Siracusa. Sicché sarebbe azzardato concludere, con B. che il bracciantato libero e i piccoli contadini autonomi se ne tennero fuori.

Nel trentennio successivo la questione sociale impostata dai Gracchi si arroventò sempre più. Il nesso che B. intravede fra l’attività di Saturnino e Glaucia a favore del ceto rurale ‒ inurbatosi in conseguenza della massiccia introduzione di manodopera servile nelle campagne ‒ e la non ancora soffocata rivolta in Sicilia non si può negare a priori; tuttavia rimane puramente ipotetico perché ‒ come B. ammette (p. 179) ‒ è del tutto trascurato dalle fonti storiche sul periodo. Di certo c’è, invece, che la riforma imposta con la forza dai due tribuni acuì la gelosia e il fermento della plebe urbana sobillata dalla nobilitas senatoria, cui diede man forte il voltafaccia di Mario nei confronti dei suoi ex alleati, che furono tolti di mezzo. La continuità della loro politica, con Marco Livio Druso, è solo apparente; costui, infatti, pur promovendo una legge frumentaria e una legge agraria di tipo ‘tiberiano’ (e, di concerto, la legge che concedeva la cittadinanza agli Italici, puntualmente avversata e lasciata cadere), non era una creatura del senato e fu da questo deliberatamente sacrificato ai ‘sovversivi’ onde predisporre la definitiva vittoria della reazione per mano di Silla.

Ci è parso doveroso largheggiare nel riassumere le linee guida del volume, perché se ne intuisca il taglio sostanzialmente manualistico (oltre tutto è sprovvisto di note, citazioni bibliografiche e indici). Invero, neanche la parte successiva vi si sottrae; ma, poiché è quella cui si deve il titolo, le riserveremo qualche riflessione più articolata.

Come si è accennato dianzi, B. associa alle due branche dello schiavismo protagoniste delle rivolte in Sicilia (ovvero i nomeîs e gli oikêtai di Posidonio/Diodoro), quella fiorita anch’essa nel II secolo, che riforniva le scuole dei gladiatori, le cui esibizioni costituirono, a suo giudizio (forse precipitoso), la principale partecipation de la plebe urbaine aux profits tirés de l’exploitation de l’empire (p. 200). In Campania e in specie a Capua, terra di elezione per una larga fascia di rentis opulenti e oziosi, gli schiavi costretti a duellare per il piacere sanguinario del pubblico di casa erano animati dallo stesso desiderio di libertà dei pastori e bovari siciliani, quando si rivoltarono al potere romano; nondimeno è innegabile che la loro rivolta aveva motivazioni meno profonde e radicate rispetto alle precedenti e la circostanza da cui ebbe origine fu del tutto occasionale; tanto che inserirla nell’identico bacino di incubazione e intenderla come una loro ripresa, come fa B., appare un po’ pretestuoso. Spartaco, un ex disertore dell’esercito romano aggregato alla scuola del lanista Cornelio Lentulo Battiato e i settanta o poco più che con lui evasero verso la fine del 74 o piuttosto nel 73 e andarono a nascondersi sul Vesuvio, non avevano di certo già maturato il progetto di dar via alla gigantesca rivolta che di nuovo marchiata dagli autori antichi come bellum servile, si alimentò, anche di un numero crescente di poveri e disperati di condizione libera (App. civ. 1, 540). Questo dovette accadere dopo la fuga dal Vesuvio quando i successi a danno dei pretori Cossinio e Varinio attrassero dalla parte dei ribelli il contado campano, che fino allora aveva assistito alle loro razzie (App. civ. 1, 542). Fu allora, infatti, che a Spartaco si palesò la necessità di creare una sorta di stato maggiore con funzioni di coordinamento all’interno dell’eterogenea massa accorsa nelle sue file, che ‒ qualunque fosse lo scopo da lui perseguito ‒ andava organizzata anche militarmente. Sarà questo il motivo per cui divise il comando con il gallico Enomao e il germanico Crisso. Il primo, però, fu precocemente ucciso in uno scontro, mentre il secondo, staccatosi da lui con trentamila uomini e direttosi in Apulia, fu intercettato alle falde del Gargano dalle truppe romane e massacrato con i due terzi dei suoi uomini (App. civ. 1, 543) o con tutti loro (Plut. Crass. 9, 9). Se, dunque, B. ha ragione nel sostenere che la separazione di Crisso dal grosso dell’esercito avvenne non per un dissidio sorto fra lui e Spartaco, ma in esecuzione di un piano stabilito insieme, forse per acquisire nuove adesioni alla rivolta (l’Apulia era terra di schiavi impiegati e come agricoltori e come pastori), è da questo momento che comincia a profilarsi il ‘mito’ del gladiatore.

Perché, rimasto solo al comando, questi decise egualmente di risalire la penisola lungo la dorsale appenninica e forse, come insinuano Appiano (cit. 544) e Plutarco (Crass. 9, 8), con l’intenzione di valicare le Alpi e raggiungere la Gallia o la Tracia; sta di fatto, però, che, pur avendo sconfitto i due consoli che dalla Cisalpina gli erano scesi incontro, e successivamente anche Gellio (che dopo la vittoria su Crisso lo aveva inseguito e raggiunto), egli non proseguì la marcia, ma si diede indietro.

B. prende le distanze dalla narrazione delle fonti, in particolare di Plutarco (p. 212 s.), che a suo giudizio mirerebbe a presentare il ribelle vagabondo nella penisola come un capo indeciso e privo di una chiara visione strategica; ma, per la verità, il biografo non avrebbe tutti i torti nemmeno se Spartaco, tornando sui suoi passi, avesse maturato il progetto di riaccendere il risentimento degli Italici contro Roma (p. 213 s.) o addirittura di marciare sulla città (come già deciso con Crisso, p. 218). Cos’è, infatti, se non un sintomo di discontinuità o di tergiversazione la rinuncia del ribelle a conquistare la capitale (genuino o no che fosse il panico cui, a sentire le fonti, essa si sarebbe lasciata andare dopo la sua ennesima vittoria), quando non si ammetta che avesse preventivamente escluso un progetto così ardito, per non dir folle? In fondo, Roma non era tanto sguarnita di difensori come suppone B. e, se Spartaco si ispirava alla condotta di Annibale ‒ come, peraltro, lo stesso B. correttamente rimarca ‒ avrà saputo fin dal principio che non aveva alcuna possibilità di spuntarla contro mura che di certo a quei tempi saranno state ben più salde che ai tempi del Cartaginese. D’altra parte, già senza questo presunto obiettivo il suo messaggio aveva scarse possibilità di attecchire presso le plebi romano/italiche; sia perché – come B. riconosce – era in progress la ricomposizione del piccolo ceto contadino, grazie ai primi effetti della riforma graccana, sia perché era difficile a vincersi l’istintiva ritrosia dei liberi, quando pure ‘proletari’, a stringere con gli schiavi un vincolo di solidarietà o ‘di classe’, inteso nel senso moderno dell’espressione. Né va trascurato che i socii italici, divenuti cittadini romani, erano ormai acquisiti (eccetto il Sannio e la Marsica, regioni in cui i sentimenti antiromani dovevano essere ancora trovare terreno fertile) al sistema ideologico della res publica ‘imperiale’; da ultimo per il tramite della professionalizzazione dell’esercito avviata da Mario (sul punto B. torna a p. 246, in sede di consuntivo, per spiegare l’assenza di moti servili nei primi due secoli dell’età imperiale).

Non a torto, dunque, B. osserva che solo in Sicilia Spartaco avrebbe potuto trovare miglior sorte, ove fosse stato in grado di riattizzare il fuoco che riteneva ancora covasse sotto la cenere delle due precedenti rivolte. E se non ci fosse stata la beffa dei pirati, che si fecero pagare il compenso del traghettamento dei ribelli prima che questo avesse luogo (se pure tanta ingenuità nel gladiatore è verosimile) il ‘sogno’ di libertà di Spartaco avrebbe potuto realizzarsi almeno lì. Sennonché questo suo nuovo piano, che B. giudica plein d’audacie e de bon sens, si fondava sul labile presupposto che ai locali, per risollevarsi, bastasse apprendere quale sterminata massa di ribelli fosse in procinto di invadere l’isola; ma che Crasso non avesse alcun mezzo per impedire loro di attraversare lo Stretto (p. 232) è un’affermazione assai opinabile. Non si può credere, infatti, che quel Verre tanto vituperato da Cicerone non avesse fatto per una volta qualcosa di buono, intensificando la vigilanza sulle coste dopo essere stato messo in allerta proprio da Crasso.

A proposito di Crasso: è quasi fatale che B. gli applichi l’abusato stereotipo del generale fort médiocre, sia pure, a titolo esemplificativo, rispetto a Scipione o a Cesare (p. 223). O a Pompeo; tant’è che nell’antica gelosia nei confronti di quest’ultimo e nel timore di essere da lui sostituito nel comando (il ritorno dalla Spagna del vincitore di Sertorio era dato per imminente) andrebbe cercata la determinazione del poco apprezzato nobile romano a chiudere in fretta la partita con i ribelli (p. 231). Può darsi; ma questo non comporta alcun giudizio di merito sul Crasso visto poi all’opera contro Spartaco. Così come poco cogente è la considerazione di B. (p. 223) che il senato fu costretto a ripiegare su quell’uomo d’affari, potente ma ancora simple préteur (pp. 222 e 229), perché allora i migliori generali (Pompeo e i due Luculli) erano impegnati fuori e altri potenziali candidati al comando presenti a Roma si rifiutarono sdegnosamente di affrontare gli schiavi (in caso di vittoria non ne avrebbero tratto alcun lustro, laddove una sconfitta li avrebbe doppiamente ricoperti di vergogna). B. trascura che, fino all’entrata in scena di Crasso, il Trace era imbattuto e induceva chiunque non fosse sicuro di superarlo in campo aperto a stargli alla larga. Non, però, l’uomo ‘della provvidenza’, spinto a nutrire ambizioni politiche per difendere i propri interessi, essendo egli stesso proprietario di vasti latifondi in Lucania e imprenditore in varie altre attività speculative che necessitavano di una quantità elevata di manodopera servile. Ora, se mai quel fort médiocre di B. prescinda dal contributo determinante di Crasso alla vittoria di Silla sui mariani a Porta Collina, pare comunque ingeneroso proiettare a ritroso sul suo profilo l’ombra del disastro di Carre, come fa B. (e con lui qualche altro studioso moderno). Tanto più perché già in Plutarco la sua fama di buon comandante è attestata dal fatto che, saputo che la repressione dei ribelli era stata affidata a lui, molti corsero ad arruolarsi spontaneamente (Crass. 10, 1). Non solo, ma il suo comportamento è contrapposto a quello di Mummio, l’incauto suo legato fattosi cogliere di sorpresa da Spartaco; donde è facile cogliere l’analogia con il caso verificatosi nel corso della guerra annibalica, quando Fabio Massimo il Cunctator era intervenuto a salvare il suo altrettanto sconsiderato capo della cavalleria, Minucio. Del resto B. non nega (p. 233) che Crasso, di là dalla riprovazione che suscita la severità con cui riportò la disciplina nel suo esercito, sapeva anche come conservarla, né contesta che la sua scelta di spingere Spartaco nel Bruzio e di trattenervelo fino all’arrivo dell’inverno fosse giusta; la stessa costruzione del vallo sull’istmo, per sbarrare ai ribelli la strada della risalita è vista (contro improvvisati strateghi moderni) come il mezzo più adatto per ridurre il loro isolamento a un longue agonie (va da sé che, quando Spartaco riesce ad aprire una breccia nel vallo e a farvi uscire un terzo delle sue forze, è contraddittorio, oltre che inesatto, asserire, a p. 235, che une sole nuit avait suffi pour faire chanceler toutes ses [scil. di Crasso] espérances). Quanto alla ‘fretta’ che Crasso avrebbe avuto di porre fine alla campagna nel Bruzio perché intimorito dal rischio che sopraggiungesse Pompeo a sottrargli il merito della vittoria, è una congettura poco suffragata dal suo rifiuto a Spartaco di negoziare la resa; se mai, la fretta di uscire dallo stallo in cui si trovava sarà stata di Spartaco, egli sì preoccupato dall’eventualità che Pompeo unisse le sue forze a quelle di Crasso (è ammissibile che la notizia fosse stata fatta trapelare ad arte dall’accampamento romano per costringerlo alla mossa disperata che di fatto ne seguì). Ma stupisce che B. dia credito (p. 235) all’improbabile versione secondo cui lo stesso Crasso avrebbe sollecitato l’aiuto di Pompeo (e di Lucullo che effettivamente era sbarcato a Brindisi, reduce dalle operazioni in Tracia) nella fase ormai terminale della caccia ai ribelli; non si stenta, infatti, a ravvisarne la provenienza da una fonte agiografica pompeiana inseritasi nel circuito narrativo della guerra di Spartaco e riecheggiata con diversa intenzione da Plutarco (Crass. 11, 3).

Vi sarebbero altri punti della limpida e scorrevole (e talora appassionata) analisi di B. degni di essere discussi; ma, per non dilungarci troppo oltre il lecito, accenneremo solo alle conclusioni cui perviene, che ci pare siano pienamente condivisibili.

La brutalità della repressione crassiana non basta a spiegare la cessazione delle rivolte servili dopo quella di Spartaco; perché ‒ osserva lucidamente B. ‒ la violenza non ferma la rabbia degli scontenti (p. 243, con un richiamo, a titolo di esempio, ai moti della Comune nel 1848). La ragione per cui il fenomeno non tornò più a manifestarsi, se non in età imperiale avanzata, è da ricercarsi nelle nuove forme di reclutamento degli schiavi: non più prigionieri di guerra né vittime delle razzie dei pirati, ma servi prodotti direttamente nell’ambito della familia, nella quale suçant la servitude avec le lait de leurs mères, ils s’accoutoumaient à leur condition, senza aver fatto l’esperienza della libertà (p. 245). Nello stesso tempo l’organizzazione centralizzata dell’impero crea una categoria di funzionari locali che ‘vigila’ anche sulla pace interna delle province; una funzione, questa, che per la verità era già demandata all’esercito, stanziato nei loro punti strategici e pronto a intervenire con relativa tempestività ai primi sintomi di disordine sociale. Infine, la cessione di terre ai veterani o alla plebe cittadina, divenuta la prassi dei governanti di turno sin dai tempi di Cesare, riassetta in Italia la piccola e media proprietà contadina (quale è contemplata nel trattato di Columella), mentre nei latifundia provinciali si assiste al graduale impiego di liberi salariati in condizioni semiservili e di manovalanze stagionali, che sgretola progressivamente il sistema economico fondato sul modo di produzione schiavistico. Saranno questi nuovi ‘dannati della terra’ i veri successori di Euno e di Spartaco, che con le loro periodiche rivolte imprimeranno un’accelerazione alla rovina dell’impero, senza coronare il sogno di libertà coltivato dai due.

 Nicola Biffi

mis en ligne le 28 janvier 2016