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Il volume è un contributo molto significativo sul pensiero storico di Cassio Dione e in particolare su come opera all’interno della Storia Romana la categoria della civilitas principis. L’autrice infatti perviene nel corso del lavoro alla formulazione della nozione di civilitas intesa come apprezzamento delle buone relazioni tra imperatore ed élite senatoria e, più in generale, al rapporto tra princeps e aristocrazia sotto il profilo politico‑ideologico. La civilitas ha tuttavia un contenuto molto concreto, che è possibile individuare in una serie di temi e di prassi entro cui si deve muovere la politica e l’agire politico del princeps, che si definiscono sempre meglio a contatto, per così dire, con la materia storica che va prendendo in considerazione.

La civilitas appare inoltre un termometro della coerenza del pensiero di Dione al fine di « individuare gli elementi che caratterizzano il “rigido canone” interpretativo a esso sotteso, alla luce di un fattore-guida che tenga conto della temperie storico-politica in cui l’autore opera e della sua estrazione sociale » (p. 11). La tesi di fondo è dunque sorretta da un principio unificante molto chiaro che l’autrice sviluppa con coerenza in tutto il suo lavoro.

Si possono individuare tre direttrici principali nella sua indagine: il rapporto tra senato e imperatore in termini istituzionali ovvero tra princeps e assemblea dei patres, specialmente sotto il profilo dei meccanismi e delle procedure di conferimento e assunzione dell’imperium in connessione alle prerogative giuridico-istituzionali del consenso senatorio; le qualità delle interazioni tra princeps e ordo senatorio in termini politici ovvero il grado di tutela che la politica imperiale riserva alla dignitas ordinis; l’intervento, all’interno di questa dialettica politico-costituzionale, di un terzo interlocutore: l’esercito.

Queste direttrici suddividono chiaramente in quattro parti (a cui ne è giustamente premessa una a carattere introduttivo relativa allo status quaestionis) che corrispondono ai quattro capitoli di cui si compone il volume: la civilitas nella Storia Romana di Cassio Dione: lessico e modelli politici; il principato civile tra teoria e prassi; la politica imperiale alla prova della civilitas; Cassio Dione e la storia contemporanea. Forme e valori della civilitas principis fra memoria del passato e costruzione del presente.

È innanzitutto importante sottolineare che civilitas, che si riconnette ovviamente con civilis, è ben attestato in Cassio Dione e non è frutto dunque di una scelta estrinseca all’opera dello storico: troviamo infatti nella Storia Romana tanto l’aggettivo δημοτικός o δημοκρατικός quanto l’avverbio δημοτικῶς oppure τὸ δημοτικόν o perifrasi come ὡς ἐν δημοκρατίᾳ; in particolare in ben quindici attestazioni studiate dall’autrice si apprende che esso compare per la prima volta in XXXVII 23, 2-3 in un passo relativo agli onori decretati a Pompeo nel 63 a.C. per estendersi sino al libro LXXIV relativo alla definizione del principato di Pertinace. È chiaro però che la ricerca non si limita all’analisi di queste attestazioni puramente lessicali – che pur costituiscono la necessaria premessa – ma propone giustamente di riportare al concetto di civilitas una serie di atteggiamenti degli imperatori. Ecco dunque che la prima parte oltre a presentare una serrata analisi lessicografica circa la nozione di civilitas, perviene a conclusioni degne d’interesse relative alla formazione di alcuni criteri generali di definizione della civilitas principis: la qualità del rapporto tra princeps e senato decisa dalla libertà di parola che il principe concede nonché da un atteggiamento non prevaricatore in ambito giurisdizionale; l’astensione dalla strumentalizzazione politica dei processi; il rispetto per le prerogative dei magistrati e il coinvolgimento dell’aristocrazia senatoria nell’amministrazione dell’impero; la preservazione dell’integrità morale degli ordines; la generale deferenza nei confronti dei patres; il funzionamento dei meccanismi istituzionali tradizionali; il rifiuto di onori eccessivi, il rifiuto del culto personale in senso divinizzante; l’attenzione per gli aspetti di politica finanziaria; l’impiego e la struttura della titolatura; l’attitudine del princeps nei confronti di attività ludiche e feste; il rapporto con i milites.

L’autrice rintraccia altresì alcuni precedenti della civilitas e del suo opposto, l’incivilitas, in Catone Minore, Pompeo e Cesare che rappresentano tre modelli diversi, pressoché antitetici, di civilitas: il primo (Catone) è un paradigma senz’altro positivo e ricorre in un contesto in cui la sua accezione è limitata al concetto-base di civilitas inteso come salvaguardia delle istituzioni repubblicane, antinomico rispetto all’atteggiamento prevaricatore – rispetto alla «costituzione» repubblicana – ascritto ad Antonio in occasione dell’usurpazione della Cisalpina o al potere dei δυνάσται, vale a dire ad un ristretto gruppo di individui in opposizione alle restanti componenti del corpo politico a detrimento della coesione sociale della civitas; il secondo (Pompeo), costituisce un esempio soltanto parzialmente positivo: Pompeo da un lato aveva sì civilmente rifiutato gli onori a lui concessi tra il 63 e il 61 a.C. (anticipando in un certo senso la recusatio imperii da parte di Ottaviano) poiché proprio la recusatio contraddistingue il princeps civilis, dall’altro però, avendo aspirato alla δυναστεία (δυναστείας ἐπιθυμήσας) era stato il principale responsabile della propria rovina; il terzo (Cesare) è un caso di civilitas fallimentare o meglio di incivilitas in quanto a XLIII 45, 1-4, relativo agli onori dedicati dal senato a Cesare dopo Munda, Dione bolla una parte di questi onori come ἀδημοκράτητα (un hapax nella Storia Romana): soprattutto il monopolio cesariano del potere militare e delle risorse pubbliche, la cui gestione esclusiva e personale era stata in seguito ottenuta da Ottaviano con la riforma provinciale del 27 a.C., viene individuato da Dione anche per Augusto come il fattore invalidante della sua pretesa di civilitas.

Infine, ci si domanda se il libro 52 (su cui l’autrice ha pubblicato recentemente un saggio comparso su Athenaeum del 2019: Riflessioni sulla lacuna nel dibattito Agrippa-Mecenate (Dio 52.13.7-14.1)) – che risente senz’altro di temi e problemi contemporanei a Cassio Dione – illustri o meno un modello di principato civile. Attraverso l’analisi dell’instabilità del termine δημοκρατία nel dibattito tra Augusto, Agrippa e Mecenate l’autrice si concentra sui contenuti e sugli argomenti dei discorsi di Agrippa e di Mecenate che configurano rispettivamente una «democrazia aristocratica» e una «monarchia partecipata» in cui senz’altro trovano spazio i temi più cari al modello del princeps civilis (notevoli sono ad esempio quelli economici, analizzati in maniera contrastiva tra i principati di Pertinace e di Caracalla). In ultima analisi per l’autrice la monarchia partecipata di Mecenate si identifica con la democrazia aristocratica di Agrippa: entrambi, infatti, auspicano un sistema di governo composto da pares e modellato sulla base delle istanze espresse da questi ultimi in merito alla partecipazione e alla gestione dell’impero. Di fatto poi il modello di impero proposto nel dibattito del libro LII si configura come una πολιτεία mista dallo schema binario, in cui δημοκρατία e μοναρχία si mescolano a formare una costituzione che si regge sul perfetto equilibrio tra auctoritas senatoria e imperium del princeps. Sul piano dei modelli politici, la μίξις tra δημοκρατία/res publica e μοναρχία/principatus corrisponde al paradigma del principato civile, vale a dire ad un modello di costituzione mista.

La seconda parte si apre con un’affermazione molto importante circa la «tecnica biografica» dionea la quale non è rilevabile nei soli libri imperiali, ma può essere rintracciata anche nella narrazione sull’età repubblicana. Purtuttavia, come è noto, in Cassio Dione è possibile rintracciare porzioni narrative che procedono secondo un principio più eminentemente tematico, e ciò in particolare, come nota giustamente l’autrice, prevalentemente nelle sezioni iniziali della narrazione dedicata a ciascun princeps.

Le sole sezioni «aneddotico-biografiche» (o meglio campi d’indagine secondo la ridefinizione data dall’autrice) integralmente attestate dalla tradizione manoscritta sono quelle pertinenti al principato di Tiberio (libro LVII) – che peraltro, un’analisi più dettagliata dei capitoli 7-14 ne smentisce il tenore puramente biografico –, di Caligola (libro LIX) e di Claudio (libro LX). A ben guardare però, queste sezioni indicano la condotta dei principes nell’amministrazione dell’impero. In questo senso è allora possibile considerare le sezioni aneddotico-biografiche come il momento in cui la condotta e le pratiche di governo di ciascun imperatore (τρόπος) vengono implicitamente passate al vaglio secondo una riflessione di natura politica (λογισμοί) compiuta attraverso il supporto dei fatti (ἔργα), siano pure essi aneddotici, ordinati secondo un criterio tematico – e proprio per tale motivo talvolta sganciati dal significato contingente.

Nell’analisi della civilitas nella narrazione dionea del I-II secolo d.C. notevole è l’individuazione di alcuni temi: quello relativo alla gestione dei processi de maiestate, che ha una grande risonanza nei libri imperiali della Storia Romana, dal momento che permette di sondare la qualità del rapporto tra imperatore e senato e costituisce dunque uno degli elementi chiave per la valutazione della civilitas principis; l’esclusione da parte di Dione dall’elaborazione del proprio modello di civilitas delle manifestazioni di popularitas dei prìncipi.

Ragionevolmente fondata mi sembra la posizione circa l’anno dei quattro imperatori ove la palmare attenzione rivolta dallo storico bitinico all’ingerenza della «casta» militare nelle dinamiche di evoluzione del principato risente delle analogie con la crisi degli anni 193-197 d.C.: esse dovettero avere un grande impatto sulle riflessioni dionee relative al fenomeno della guerra civile. Questo elemento potrebbe peraltro suggerire di escludere che nel testo originale dell’opera dionea il concetto di civilitas principis venisse impiegato in relazione agli attori di questa fase convulsa della storia romana.

Si conviene senz’altro con l’autrice nel ridimensionamento della connotazione filosenatoria generalmente attribuita alla politica di Marco Cocceio Nerva alla luce delle vicende che condussero al suo accesso al principato che mostrano come si trattò di una congiura di palazzo.

Con Marco Aurelio si inaugura l’ideale del bonus princeps percepito come paradigma comportamentale di riferimento soprattutto per gli imperatori che di volta in volta si trovavano a fronteggiare il fenomeno dell’opposizione senatoria nel clima di forte tensione che pervase la politica interna durante gli anni 193-222 d.C. (e cioè da Pertinace fino a Elagabalo, in relazione ai cui governi l’espressione è attestata).

Il paradigma dell’ἀγαθός αὐτοκράτωρ rappresenta per Cassio Dione una nozione cui egli riconduce sempre e soltanto un unico tipo di azione, l’astensione da parte del princeps dal condannare a morte i senatori ovvero, più nello specifico, gli oppositori politici. Diversamente, la civilitas risulta essere un criterio di valutazione più inclusivo e più soggettivo. Di conseguenza sebbene l’astensione dall’eliminazione sistematica degli oppositori che caratterizza la condotta del bonus princeps possa, a buon diritto, essere inclusa tra le prassi della civilitas, tale azione non risulta da sola essere una condizione sufficiente a connotare la politica di un imperatore come aderente al modello di principato civile.

Alla fine del II secolo d.C. poi la clementia quale virtù del princeps ideale si configura come una nozione in declino soprattuto in relazione al trattamento degli oppositori politici: Settimio Severo, dopo la disfatta di Clodio Albino nella battaglia di Lugdunum (197 d.C.), si farà promotore di una linea politica dura nei confronti di coloro che avevano avversato la sua ascesa schierandosi con la factio nemica e, nel noto discorso che pronuncerà in senato nel 197 d.C. (Dio LXXV 8), dichiarerà deleteria la clementia di Pompeo e di Cesare (ἐπιείκειαν ὡς ὀλεθρίαν), opponendola alle salvifiche severitas e crudelitas (αὐστηρίαν τε καὶ ὠμότητα ὡς ἀσφαλεστέραν ἐπαινῶν) di Silla, Mario e Augusto.

Nella quarta ed ultima parte relativa alla storia contemporanea a Cassio Dione, in cui lo storico diventa testimone ed attore a partire dall’impero di Commodo – che pone fine all’aurea aetas marcaureliana, e dove potrebbe essere rintracciato l’humus su cui germoglia efficacemente l’idea di civilitas impiegata dal nostro storico nella sua personale analisi della storia politica di Roma – si apprezzano in particolare lo svolgimento di alcune ipotesi tra le quali ricordo: le designazioni consolari per l’anno 193 d.C. come possibile ricongiungimento alla gens Ceionia tentato da Commodo negli ultimi anni del proprio principato; la collocazione della svolta di Settimio Severo nel 197 dopo la battaglia di Lugdunum, in coincidenza con la riabilitazione di Commodo nel 197 e non nel 195 (anno dell’auto adozione di Settimio nella dinastia antonina); il collegamento tra la rivolta di Bulla e gli affari di Plauziano in Italia; la collocazione dell’Excerptum Vaticanum attribuito alla moderatio di Settimio e non a Plauziano; l’identificazione dei Κελτικοί all’epoca di Elagabalo con i Batavi degli equites singulares.

Di particolare interesse sono anche le osservazioni conclusive laddove l’autrice evidenzia come le valutazioni di Cassio Dione tengano conto delle relazioni che l’imperatore instaura con i milites in veste di attori politici: in particolare nel caso di Severo Alessandro la distribuzione della materia – nell’ultimo e decisamente lacunoso libro della Storia – rivela gli aspetti disfunzionali del regime imperiale, lasciando emergere un’immagine dell’età contemporanea piuttosto negativa, poiché la debolezza dell’auctoritas principis inficia la capacità di tenere a freno la potentia dei militari, di cui si ricerca il consenso come strategia di legittimazione. Ciò spiega anche la critica – implicita – che lo storico bitinico muove al principio dinastico nella successione imperiale poiché non si rivela adatto ad assicurare il candidato più idoneo al governo dell’impero: il caso della successione di Caracalla a Settimio Severo oppure quella di Elagabalo a Caracalla (Macrino è ovviamente considerato una parentesi) sembra a Dione la prova lampante della inadeguatezza del criterio dinastico. Mentre infatti Severo era riuscito a conquistare consensi promuovendo la ultio di Pertinace e soprattutto rafforzando in modo indubitabile la sua auctoritas attraverso le sue imprese militari né Caracalla – troppo alla ricerca del consenso dei soldati e deliberatamente estraneo all’approvazione del senato – né Elagabalo – che aveva puntato su una strategia di legittimazione originale come quella religiosa – erano riusciti nei loro intenti.

Nel complesso il volume di M. Bono è un contributo di eccellente qualità poiché approda a significativi esiti sia sotto il profilo storico sia sotto il profilo storiografico: l’indagine è infatti condotta con un metodo rigoroso, impiegando una pluralità di fonti (letterarie, epigrafiche, prosopografiche) ed è infine corredata da un’imponente e aggiornata bibliografia, puntualmente discussa nel lavoro, nonché da indici e apparati molto dettagliati.

 

Alessandro Galimberti, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Publié dans le fascicule 2 tome 125, 2023, p. 598-602.