Il discorso XI di Libanio, trasmesso con il titolo di Antiochicos o « discorso antiocheno », è un elogio di Antiochia sull’Oronte, capitale della provincia di Siria e della diocesi d’Oriente, pronunciato dal retore antiocheno in occasione dei Giochi Olimpici del 356, come stabilito dalla solida ricostruzione cronologica di P. Petit[1]. La situazione privilegiata di Antiochia nella gerarchia delle grandi città[2] viene più volte sottolineata da Libanio, che con la sua esistenza non solo ha abbracciato straordinariamente gran parte del IV secolo, ma è vissuto quasi sempre, dal 354 al 393, nella sua città natale.
L’ampia ‘portata’ del panegirico ne spiega la fortuna e l’interesse presso gli studiosi così come, a differenza della maggior parte dei discorsi libaniani, il cospicuo numero di traduzioni (anche se spesso parziali), corredate o meno da commento, a partire da quella in tedesco di L. Hugi del 1919[3], per arrivare poi a quelle di G. Downey del 1959, di G. Fatouros e T. Krischer del 1992, di A.F. Norman del 2000 e di a Á. González Gálvez del 2001.
Questo volume, che si inserisce nella prestigiosa Collection des Universités de France, presenta la prima traduzione francese completa dell’orazione libaniana, di cui A.F. Festugière nel 1959[4] aveva tradotto i soli paragrafi 196-272, corredati con un commento di carattere archeologico a cura di R. Martin. Il testo è stabilito e tradotto da Michel Casevitz, e da Odile Lagacherie, alla cui tesi di dottorato (discussa con Jean Martin nel 1983) il volume rimanda ricordando l’auspicio dello stesso Martin che il lavoro potesse trovare un esito nei tipi della CUF. A Catherine Saliou, che tra l’altro coordina il Progetto Internazionale Lexicon Topographicum Antiochenum (LTA)[5], si devono le note complementari di commento e la presentazione del discorso nell’introduzione al testo, ad eccezione della parte relativa alla tradizione manoscritta, che è stata curata
da Casevitz.
Va sottolineato che il discorso in questione conobbe una fase orale, che naturalmente coincise con l’occasione del discorso stesso, i Giochi Olimpici del 356, e una successiva fase scritta, che lo consegnò alla tradizione nella forma in cui lo leggiamo oggi, facendone un testo utile per la ricostruzione della memoria urbana di Antiochia e dei realia del IV secolo d.C. in genere.
Aderente ai topoi della retorica dell’elogio, l’Antiochicos si caratterizza per la vasta estensione riservata alla sezione panegiristica della città di Antiochia, e per converso per lo spazio ridotto destinato ai Giochi Olimpici. Un ottimo ausilio al fruitore del testo è fornito dalla tabella sull’organizzazione generale dell’orazione (p. XII-XVII), dove vengono passate schematicamente in rassegna le varie parti in cui il discorso epidittico può essere suddiviso: esordio; passato; presente; concorso olimpico; conclusione. Le due ‘macrosezioni’ in cui si articola il discorso sono di fatto il passato ed presente della città, che C. Saliou definisce « présentation en diptyque » (p. XVIII), e la cui finalità sarebbe quella di far risaltare l’armonia tra il tempo antico e la realtà attuale.
La narrazione dettagliata delle origini e della fondazione di Antiochia (§§ 44-56), nonché della sua storia sotto i Seleucidi (§§ 78-128) – al primo dei quali risale la fondazione storica della città –, è pienamente conforme ai dettami della retorica antica: la città veniva elogiata come se si fosse trattato di una persona e, in quanto tale, traeva lustro dalla sua origo e per così dire dalle sue genealogie. La prostasia della polis antiochena, risalente dunque ai Seleucidi che ne avevano fatto il luogo privilegiato di incontro con il resto del mondo ellenico e, nello stesso tempo, la porta dell’Asia interna, viene confermata dai Romani con il titolo onorifico di « metropoli d’Asia » (§ 130), un riconoscimento di una situazione molto antica, che la stessa Costantinopoli non avrebbe potuto soppiantare poiché « il ne saurait exister deux métropoles de l’Asie » (p. 129).
La sezione consacrata al presente si articola, a sua volta, in due parti, delle quali l’una prende in considerazione la città in quanto entità politica ed umana (§§ 132-192), l’altra la sfera della vita urbana e, quindi, la descrizione degli spazi di Antiochia e dei suoi sobborghi (§§ 196-264).
Da un lato si ha, dunque, l’elogio della boulé (§§ 133-149), di cui vengono passate in rassegna le quattro virtù cardinali: in modo aderente al topos del contrasto tra passato e presente, prediletto da Libanio, nell’Antiochicos la boulé viene idealizzata come « una radice su cui si erge tutta la struttura della polis » (§ 133), in maniera contrastante sia con la situazione descritta nelle orazioni XLVIII e XLIX, sia con le forme di rimprovero nei confronti di una boulé disunita e dimidiata quali ritroviamo nel discorso LVI. I toni encomiastici e idealizzanti dell’Antiochicos inneggiano agli effetti dell’eloquenza ostentata dai buleuti nei dikasteria, dove ci si radunava « come in sale di conferenze, per ascoltare le lotte dei buleuti con i governatori » (§ 139). Il passo documenta lo svolgimento di agoni oratori paragonabili a vere e proprie akroaseis retoriche nei dikasteria alla presenza di un pubblico di esperti, e l’attuazione di un’oratoria agonale tipica del genere giudiziario alla presenza di esponenti del potere imperiale: in questo contesto, l’efficacia dei retori veniva a costituire lo strumento per interagire, nell’interesse della realtà locale, con le autorità che erano chiamate a rappresentare il potere centrale. Dall’immagine idealizzata della vita politica antiochena fornita dall’Antiochicos, sembra che i funzionari convocassero la boulé quando si trattava di emanare dei decreti, e che i buleuti si opponessero quando il diritto veniva calpestato, mentre esprimevano la loro approvazione quando la giustizia trionfava: questo trionfo della giustizia viene appunto descritto come un gran vanto per il governatore (§ 142). In verità, la realtà doveva essere ben diversa: lo stesso Libanio, in altro contesto, ci descrive i buleuti in silenzio e intenti ad approvare con un cenno spaventato della testa quanto veniva proposto, oltretutto nascondendosi dietro il vicino – come si coglie dal discorso indirizzato da Libanio a dei suoi ex-studenti divenuti poi membri della boulé, ‘affetti da afonia’ a causa della passività e dell’inerzia che caratterizzavano ormai la classe curiale (Lib., Or. XXXV, 6).
Un altro aspetto distintivo di questa sezione è il paragone sistematico tra Antiochia ed Atene (§§ 163-192) che, oltre a giocare un ruolo fondamentale nella retorica dell’elogio, rivela la tendenza di Libanio a reimpiegare l’esperienza politica del passato greco come categoria gnoseologica: Atene, con la sua identità cittadina e con i suoi rappresentanti più illustri, agiva infatti come un universo riconosciuto di referenze concettuali e ideologiche ad alto potenziale di comunicazione.
Nella sezione dedicata al presente si ha l’esaltazione della bellezza intra muros della città antica, attraversata dalla strada porticata, e della città nuova situata sull’isola (§§ 196‑229), nonché dei villaggi e dei sobborghi (§§ 230‑232); in particolare, è messo in rilievo lo charme di Daphne (§§ 235-243), e della vita urbana (§§ 244-268).
All’interno di questa « organisation extrêmement rigoreuse » (p. XXIX), che lascia tuttavia spazio alla ripresa di alcuni temi al di fuori dei confini di una rigida geometria, C. Saliou accompagna per mano il lettore attraverso un commentario analitico per addentrarlo nell’esplorazione sistematica di Antiochia, la cui estensione è tale da non poter essere ridotta a nessun tipo di pianta urbana, e, variando il topos encomiastico della « città che racchiude in sé più città », da una parte viene distinta – come accennato più sopra – la città Palaia (§§ 196-202), che si estendeva con un andamento longitudinale tra il fiume Oronte e la montagna (a nord verso Aleppo, a sud verso Daphne), e poi dall’altra la Kainé (§§ 203-208), situata sull’isola con una forma circolare che richiama quasi la fondazione romulea, ed il cui centro è equiparato ad un omphalos, a creare una metafora che assimila lo spazio urbano al corpo umano. La tendenza libaniana ad evitare i toponimi, e l’intrecciarsi di elementi costanti della topica dell’elogio della città (i portici, ad esempio) misti a peculiarità specifiche del paesaggio antiocheno, e connotati pertanto da un reale valore documentario, rendono ancor più preziosa l’attenta analisi interna del discorso[6]. Se il retore descrive in maniera dettagliata soltanto il santuario delle Ninfe o Ninfeo (città vecchia) ed il palazzo imperiale[7] (città nuova), passa tuttavia in rassegna anche gli altri poli essenziali del paesaggio urbano come gli edifici termali (distinti in pubblici e privati e, ancora, in bagni d’estate e bagni d’inverno: §§ 244)[8], l’ippodromo (§ 218), il teatro (§ 218), lo xystos (§ 219), il plethron (§ 219) e, soprattutto, i portici, con la cui descrizione (§ 211) – che rasenta l’iperbole quando si cerca di indicarne la lunghezza complessiva – Libanio vuole impressionare l’uditorio, mentre con la valorizzazione della funzione sociale delle strade porticate (§ 213: « espace de sociabilité », p. 167) getta una vivida luce sulla dimensione cosmopolita della megalopoli antiochena: dobbiamo immaginarci l’Antiochia del IV secolo come una città eterogenea, un ‘melting pot’ di diverse culture, dove le strade (spazi neutri, accessibili a tutti e, quindi, luoghi privilegiati per la vita sociale) consentivano l’instaurarsi di rapporti di amicizia, fine ultimo della vita urbana nella concezione libaniana. Di tutte le attrattive di una città, infatti, i portici vengono ritenuti i più piacevoli e proficui luoghi di incontro (§ 213): prima che vi fossero le strade porticate, infatti, le cattive condizioni atmosferiche tenevano gli uomini distanti, bloccati come dei prigionieri dalla pioggia, dal gelo, dalla neve, dal vento, al punto che solo in teoria abitavano la stessa città, mentre in pratica erano come abitanti di città differenti (§ 215). L’elogio che Libanio consacra ai portici (Lib., Or. XI, 196-202; 211-218; 251-255) non è solamente sviluppo convenzionale di retorica, ekphrasis obbligata all’interno di un panegirico della città, ma materia di riflessione sulla vita sociale del IV secolo, sulla sua vitalità e sulle sue manifestazioni, favorite dalla sistemazione urbana, poiché la città, come rimarca C. Saliou[9], è per eccellenza il luogo dove gli spazi, le costruzioni e la loro distribuzione riflettono il funzionamento di una società e ne simbolizzano la cultura.
Rispetto ai topoi dell’eloquenza epidittica, sembra essere peculiare di Libanio (p. XXIX) la menzione delle abitazioni private (§§ 195 e 225) e delle botteghe degli artigiani. Segue la sezione dedicata alla bellezza dei villaggi e dei sobborghi, in particolare di Daphne (§§ 235-243), ed è proprio l’itinerario che da Antiochia porta a Daphne (§§ 233-234) a consentire al retore di celebrare con toni idillici la rigogliosa natura ed il paesaggio ameno che accompagnavano a quello che sicuramente rappresentava un luogo simbolo dell’incontro/scontro tra i cultori della religione tradizionale e quelli della nuova religione cristiana, culminato con l’incendio del tempio d’Apollo. Non è un caso che le uniche menzioni esplicite di templi si abbiano proprio nella descrizione di Daphne, mentre il paesaggio urbano descritto da Libanio nell’Antiochicos, ad eccezione del paragrafo dedicato alla fondazione della città da parte di Trittolemo – che l’avrebbe dotata anche di un santuario in onore di Zeus (§ 51: secondo Libanio gli eroi argivi, partiti alla ricerca di Io, sedotti dalla bellezza del luogo, avrebbero abbandonato la loro missione e fondato un santuario di Zeus Nemeios a Ione, sulle pendici del monte Silpio) –, sembra carente di edifici religiosi pagani, distaccandosi in ciò dalla tradizione retorica dei secoli precedenti, che dedicava ampio spazio a templi e santuari: si ha quasi l’impressione che Libanio voglia dimostrare che la città da lui descritta era un « espace commun aux chrétiens et aux tenants des religions traditionnelles », dove era possibile stare tutti insieme in quanto politai, e, pertanto, « dépouillée de toute référence religieuse »[10]; non bisogna dimenticare, del resto, che Libanio viveva in un contesto religioso di « ambiguity or pluralism »[11]. C. Saliou ha dimostrato, attraverso l’analisi anche di altre fonti, l’esistenza ad Antiochia di almeno nove templi ancora nella metà del IV secolo d.C.[12]; lo stesso Libanio, in varie sue orazioni, ricorda un tempio in onore della Musa Calliope, una delle divinità protettrici di Antiochia (LX,13), menziona i templi della Fortuna, di Zeus, di Atena e di Dioniso (XXX,51), e afferma che ad Antiochia sopravvivevano i templi di Ermes, Pan, Demetra, Ares, Calliope, Apollo e Zeus (XV,79).
Da Daphne il lettore viene ricondotto ad Antiochia lungo il tragitto dell’acquedotto scavato in gran parte nella collina: Libanio evoca con toni encomiastici la qualità ed insieme la quantità dell’acqua[13] di cui fruivano gli Antiocheni (§§ 244-248): ad Antiochia sarebbe esistita, inoltre, nel IV secolo una rete sviluppata di condutture che portavano l’acqua, proveniente dalle celebri sorgenti di Daphne, fino alle abitazioni private (§ 246), e alle fontane pubbliche nonché ai vari edifici termali estivi ed invernali (§ 220). Questi servizi naturalmente costavano non poco alla città in termini di riparazioni od anche semplicemente di manutenzione, anche se molto del lavoro ordinario, come la pulizia delle condutture degli acquedotti, era svolto dalle corporazioni di mestiere (Lib., Or. XLVI, 21)[14].
Si è a questo punto già all’interno della sezione consacrata ai piaceri della vita urbana (§§ 244-265), che prosegue con le lodi della fertilità del territorio nonché dell’abbondanza di prodotti (§§ 251-265) sul mercato antiocheno tra gli intercolumnia dei portici. In particolare, Libanio si sofferma sull’approvvigionamento ittico, distinguendo pesce di mare, di lago e di fiume, secondo una gerarchia che vede il pesce della prima tipologia contraddistinto dal prezzo più elevato (ciò che trova una conferma già nell’editto dioclezianeo sui prezzi del 301), e in maniera funzionale all’obiettivo di presentare Antiochia come la città della tryphé[15], ma una tryphé accessibile a tutti, pur nelle distinzioni date dalle condizioni dei singoli.
In realtà, contrariamente al quadro che ci presenta Libanio, in questa grande città, caratterizzata dal gusto delle feste, degli spettacoli e dei piaceri, le disuguaglianze tra le classi sociali erano enormi, e cospicuo il numero dei poveri, come attesta Giovanni Crisostomo, nella cui opera si trovano le descrizioni più appassionate e suggestive dell’angoscia che attanagliava quanti non avevano una casa quando, al calare della sera, rimanevano soli nella città, vuota come un deserto senza risorse, nel quale in cui non si poteva più sperare di essere sfamati[16]. Vi è una certa evidenza del fatto che, durante la seconda metà del IV secolo, l’afflusso e una plurale distribuzione dei generi alimentari in città siano andati soggetti a delle notevoli difficoltà, come dimostrano le crisi che si avvicendarono con una certa frequenza. Si ha notizia di quella del 354-5, sotto Gallo, Cesare d’Oriente (Amm. XIV, 7, 25; Lib., Or. I, 96-97, 103; 19, 47); di quella del 362‑3, sotto l’imperatore Giuliano, allora attestato ad Antiochia[17]; ed ancora di quelle del 382‑3 (Lib., Or. I, 205), sotto il comes Orientis Filagrio, e del 384-5 (Lib., Or. I, 227-8, 233), sotto il suo successore Icario (Amm. XXXI, 1, 2). In aggiunta si possono menzionare, come attestazione di un approvvigionamento che non riusciva a tenere il passo dell’incremento demografico, le dimostrazioni della folla a teatro nel 386 (Lib., Or. XLV, 4), nel 388-9 (Lib., Or. LIV, 42) e nel 392 (Lib., Or. XLVI, 5, 17-18, 31‑32)[18].
Nel delineare l’immagine di Antiochia come luogo di prosperità, Libanio si sofferma sull’elogio dell’importanza strategica ed economica dell’Oronte per il trasporto fluviale, ed apre una digressione sull’attività del porto di Seleucia (§ 263), attraverso cui giungevano i prodotti dall’Africa, dall’Asia e dall’Europa, mentre, come sottolinea C. Saliou (p. 193), non si accenna al ruolo giocato dalla principale città della Siria all’interno del commercio con ogni località dell’impero, permesso dalla sua posizione strategica che la vedeva posta nei punti di convergenza delle rotte carovaniere.
Ci troviamo in definitiva di fronte ad un ulteriore volume del cui pregio la Collection Budé può farsi vanto, nella misura in cui costituisce un contributo di grande rilievo agli studi libaniani ed in generale agli studi sul IV secolo d.C. L’opera inoltre, grazie alla traduzione, consente un approccio sorvegliato, e sottoposto al vaglio esegetico di riconosciuti specialisti, ad un testo essenziale per la conoscenza della realtà antiochena nonché per quella dei rapporti tra città e governo imperiale; il testo greco a fronte permette di porre il lettore costantemente a contatto con la lingua di Libanio, stimolando così una riflessione sulla qualità retorica del discorso, e sui suoi modelli e riferimenti teorici. Le note presentano un commento che mette in chiara luce le questioni storiche di portata generale, chiarisce le ambiguità libaniane, ma allo stesso tempo agevola il lavoro degli studiosi in quanto opera un’attenta disamina tra quello che è informazione obiettiva e quello che è deformazione ideologica operata dalle scelte e posizioni personali di Libanio. L’analisi testuale interna, compiuta in maniera capillare, consente al lettore di distinguere tra funzionamento del codice retorico e contenuti aderenti alla realtà concreta; ad essa si accompagna, dove necessario, quella comparativa con altri autori dell’epoca, e che fa emergere il discrimen tra l’ottica del sofista ‘porte-parole’ della polis qui piegata all’esigenza occasionale dell’elogio, e quella del retore che altrove indossa i panni dell’ intellettuale critico di fronte alla realtà del suo tempo. Le note di commento sono, così, inscindibili dalla lettura dell’elegante traduzione che, a sua volta, ha il pregio di essere aderente alla peculiare sintassi libaniana, di cui lascia cogliere la complessità senza mai compromettere la chiarezza della resa.
Marilena Casella, Università degli Studi di Messina
[1]. P. Petit, « Recherches sur la publication et la diffusion des discours de Libanius », Historia 5, 1956, p. 479-509.
[2]. Auson., Ordo urb. nob. 4, 5: tertia Phoebeae lauri domus Antiochia, vellet Alexandri si quarta colonia poni: ambarum locus unus.
[3]. Der Antiochikos des Libanios Diss., Fribourg.
[4]. Antioche païenne et chrétienne. Libanius. Chrysostome et les moines de Syrie, Paris.
[5]. C. Saliou, « Les sources antiques : esquisse de présentation générale » in Les sources de l’histoire du paysage urbain d’Antioche sur l’Oronte. Actes des journées d’études des 20 et 21 septembre 2010, Paris 2012, p. 25-42.
[6]. C. Saliou, « L’Éloge d’Antioche (Libanios, discours 11 = Antiochikos) et son apport à la connaissance du paysage urbain d’Antioche » in Les sources de l’histoire du paysage urbain d’Antioche sur l’Oronte. Actes des journées d’études des 20 et 21 septembre 2010, Paris 2012, p. 43-56.
[7]. C. Saliou, « Le palais impérial d’Antioche et son contexte à l’époque de Julien », Antiquité Tardive 17, 2009, p 235-250.
[8]. C. Saliou, « Bains d’été et bains d’hiver : Antioche dans l’empire romain » in B. Cabouret, P.‑L. Gatier, C. Saliou éds., Antioche de Syrie, Histoire, images et traces de la ville antique, Lyon 2004, p. 289-309.
[9]. C. Saliou, « Antioche décrite par Libanios: la rhétorique de l’espace urbain et ses enjeux au milieu du quatrième siècle » in E. Amato éd., Approches de la Troisième Sophistique, Hommages à Jacques Schamp, Bruxelles 2006, p. 273-285.
[10]. C. Saliou, ibid., p. 280.
[11]. E. Burr, « Libanius of Antioch in relation to Christians and christianity : the Evidence of selected Letters » in Mélanges A.F. Norman. Textes réunis par Á. González Gálvez et P.‑L. Malosse, Lyon 2006, p. 63-76, in partic. 66.
[12]. C. Saliou, Les lieux du polythéisme dans l’espace urbain et le paysage mémoriel d’Antioche-sur-l’Oronte, de Libanios à Malalas (IVe-VIe s.) in A. Busine éd., Religious Practices and Christianisation of the Late Antique City, Leiden-Boston, 2015, p. 38‑70.
[13]. C. Saliou, « Rhétorique et réalités : l’eau dans l’Éloge d’Antioche (Libanios, Or. XI) », Chronos 13, 2006, p. 7-27.
[14]. M. Casella, Storie di ordinaria corruzione. Libanio. Orazioni LVI, LVII, XLVI. Introduzione, Traduzione e Commento storico, Messina 2010, p. 122-123 e p. 306-307.
[15]. C. Saliou, « Jouir sans entraves ? La notion de τρυφή dans l’Éloge d’Antioche de Libanios » in O. Lagacherie, P.-L. Maloss éds., Libanios, le premier humaniste. Études en hommage à Bernard Schouler, Alessandria 2011, p. 153-165.
[16]. M. Casella, E eis tous ptochous epikouria. Rapporto tra legislazione imperiale e decreti municipali (Libanio, Or. XLVI, 21), AARC XV, Testi giuridici e letterari per la storia del diritto tardoantico (Perugia-Spello 2001), Napoli 2005, p. 153-155 [145-172].
[17]. G. Downey, « The Economic Crisis at Antioch under Julian the Apostate » in Studies in Roman Economic and Social History in honor of A.C. Johnson, Princeton 1951, 312-321.
[18]. M. Casella, Storie di ordinaria corruzione. Libanio. Orazioni LVI, LVII, XLVI, 114-117, 120-121, 126-127, 273-275, 296-300, 320-323.