< Retour

Questo ampio lavoro di Marie-Adeline Le Guennec è dedicato alla figura professionale del caupo e di altri addetti all’attività di accoglienza di persone in viaggio che, nel mondo romano, fornivano loro alloggio, dietro pagamento, e al complesso delle loro radici sociali. Con l’espansione del dominio di Roma e del connesso espandersi della mobilità, il ruolo di questi locandieri, sebbene in genere screditati, appare sempre più cruciale nel garantire la fluidità della circolazione di persone e merci su medio e lungo raggio.
Lo studio di Marie-Adeline Le Guennec, incentrato sull’Occidente, è dedicato in particolare all’evoluzione dell’attività dei caupones tra il periodo medio-repubblicano e l’inizio della Tarda Antichità, con un approccio trasversale alle fonti letterarie e alla documentazione archeologica. La LG analizza specificamente il profilo economico e commerciale di questi locandieri, nonché il quadro giuridico in cui ricadeva la loro attività. Il sondaggio esamina le identità dei professionisti dell’ospitalità e dei loro clienti e discute le rappresentazioni, a volte stereotipate, in cui esse figurano. Questo lavoro prende anche in considerazione le forme di socialità che ebbero modo di realizzarsi negli alberghi dell’Occidente romano, dalle megalopoli dell’Impero alle zone più remote e meno frequentate.
Questa densa e ricca monografia suscita particolari motivi di interesse. Va riconosciuto preliminarmente alla studiosa di essere riuscita a svolgere un discorso organico e coerente su una questione specifica, l’accoglienza offerta ai viaggiatori nel mondo romano, dando rilievo alle questioni di natura lessicale e alla scansione cronologica nell’ampio arco di tempo da lei considerato (III sec. a.C.-IV sec. d.-C.). Il libro è estremamente ben documentato, includendo una notevole ricchezza di testimonianze archeologiche e di riferimenti testuali. Si tratta di una monografia che può essere inquadrata nel salutare ritorno di interesse per la storia del lavoro nel mondo antico, e non solo, che è in corso. Questo si traduce in un quadro molto vivido delle realtà quotidiane in cui la microscala ha il centro della scena e in cui esempi particolari si adattano, apparentemente senza soluzione di continuità, al più ampio quadro storico.
Nicolas Tran, in uno studio significativo, di argomento avvicinabile a questo anche se con un taglio diverso, da parte sua ha osservato opportunamente che il mondo del lavoro romano non può essere considerato un insieme omogeneo e uniformemente umile. La rivisitazione delle nozioni correnti di status sociale si è tradotta, ad esempio, nella significativa monografia di Miko Flohr del 2013 sulla figura del fullo. Anche Jean Andreau, che colloca in qualche modo a metà lo statuto del lavoro tra quello giuridico e la classe sociale, ha affrontato la questione in numerosi scritti significativi della fine del secolo scorso. Un elemento che caratterizza l’evoluzione della società romana a partire dalla tarda età repubblicana scaturisce precisamente dalla complessità delle posizioni sociali occupate da un individuo e dei ruoli collegati a tali posizioni.
Se è lecita una considerazione di carattere generale, sembra plausibile riconoscere un fenomeno di ampia portata e di lungo periodo in cui sono riconoscibili le “driving forces” che risultano produttive di una crescente valorizzazione delle singole attività lavorative. L’esito, come risulta dall’articolata monografia di Cyril Courier, è una sostanziale valorizzazione dell’attività lavorativa, pur così differenziata, e una prima definizione di un’identità plebea.
La LG mette in chiaro, a giusto titolo, la pluralità delle tipologie dei viaggiatori, soprattutto a partire dalla tarda età repubblicana e la differenze delle loro esigenze. A prescindere dalle risorse degli esponenti delle élite è lo Stato stesso, almeno a partire da una certa epoca, ad offrire opportunità di accoglienza gratuita a specifiche categorie di viaggiatori nel corso dei loro spostamenti. Si tratta prevalentemente di persone che si spostano per ragioni ufficiali perché investite di una funzione pubblica, militare e, successivamente, religiosa. Esisteva, certo poi, a tutti i livelli, ma soprattutto nei ceti superiori, una forma di ospitalità che presupponeva un sostegno reciproco di tipo giuridico, sociale e, in taluni casi, anche politico. L’“albergo” come struttura riservata al viaggiatore è qualcosa ovviamente di diverso e di specifico. Da apprezzare nello studio della LG è l’interesse riservato, in linea con un filone di studi ormai consolidato, per la questione generale della circolazione umana nel Mediterraneo antico e per le sue implicazioni di tipo sociale in senso lato.
I luoghi di accoglienza alberghiera in latino hanno denominazioni diverse, a cominciare da quella di hospitium e di stabulum nonché, appunto, di caupona. È giusto senz’altro sottolineare una evoluzione e una differenziazione dell’ambito semantico che sembra corrispondere alla diversificazione crescente che si registra con il moltiplicarsi degli scambi e degli spostamenti. La LG, che è molto attenta al dato lessicale, dedica alla questione un giusto rilievo anche in ragione della considerazione, nel complesso limitata, che l’argomento ha ricevuto in genere nella ricerca: il riferimento standard è rappresentato dalla monografia dello studioso svedese, T. Kleberg, che risale al 1957.
La LG affronta nel primo capitolo un aspetto tanto decisivo quanto delicato, vale a dire la definizione del “mestiere di albergatore”, per il quale non esiste in latino una definizione univoca, a differenza di altre attività come quelle di pistor o di fullo Al giureconsulto Gaio si deve un tentativo di esplicitazione giuridica in un passo del suo edictum provinciale in cui peraltro manca una specifica definizione normativa.
La LG sottolinea opportunamente (p. 406) come l’ospitalità alberghiera fosse considerata come un’attività dotata di una propria identità molto peculiare con connotazioni, peraltro, fondamentalmente dispregiative. Rappresentando un oggetto di responsabilità propriamente unica a livello di diritto romano, i professionisti dell’ospitalità si vedevano assegnare un posto a parte nel diritto commerciale.
Si tratta di un’identità che, su base giuridica, si traduceva, in buona sostanza, in una semplice registrazione di una realtà fattuale: il caupo, termine di etimologia controversa (in Ennio, Ann. VI, 195 figura il verbo cauponor con un significato vicino a quello di “trafficare”), riceve una ricompensa per il fatto di lasciar dimorare i viaggiatori nel suo immobile. Il caso della popina è diverso perché, pur trattandosi indubbiamente di un termine specializzato, non è propriamente riconducibile a funzioni di alloggio ma alla vendita di bevande e di piatti cucinati (è ampiamente attestato l’uso metaforico del termine con il valore di eccesso gastronomico. La taberna al contrario, oltre alle sue primarie funzioni di natura commerciale, poteva, almeno in taluni casi. fornire anche un alloggio. Si tratta, comunque, in generale, di luoghi che presuppongono un livello di sociabilità più o meno pronunciato a prescindere dalla diffidenza che potevano suscitare.
Sono certamente assenti dalle popinae, o simili, i legami sociali e le relazioni interpersonali che caratterizzano il convivio, in cui una complessa relazione gerarchica tra chi lo organizzava e i suoi ospiti era scandita attraverso l’offerta e l’accettazione di inviti, cibo, divertimento, conversazioni e simili. Anche Giovenale nell’ottava satira, fa delle pervigiles popinae (v. 158) il sinonimo della massima promiscuità: descrive un personaggio di alto rango, un ex-console, che trova compagnia in una popina con assassini, marinai, ladri, carnefici, sacerdoti castrati di Iside e altri indesiderabili. Osserva: lì la libertà di tutti è uguale, le tazze sono usate in comune, nessuno ha un suo proprio divano, né un tavolo è riservato a nessuno (vv‑173-178). Mescolamento sociale e livellamento eccessivi hanno luogo anche perché gli usuali strumenti utilizzati come dispositivi conviviali per imporre gerarchie e articolare distinzioni sociali (cibo e utensili classificati, codificati in base allo status, luoghi e posture) sono assenti.
È peculiare di Pompei il fatto che gli spazi commerciali, industriali e residenziali confinino e confluiscano l’uno nell’altro: la presenza di una funzione non preclude, infatti, che se ne possano avere altre nella stessa struttura. In effetti, ad esempio, la casa del Forno (I.12.1–2) è simile alla casa dei Casti Amanti nell’unire le funzioni di panetteria e residenza, con una sala da pranzo piacevolmente arredata.
Comprendere quanto sia peculiare delle dinamiche sociali della ristorazione conviviale può significare considerare anche una forma di ristorazione alternativa, a distanza, a cui ai nostri giorni siamo ormai abituati: l’acquisto e il consumo di cibo preparato in taverne o cucine pubbliche (oggi si direbbe: “da asporto”). Gli studiosi chiamano convenzionalmente questi stabilimenti popinae o cauponae, in modo talvolta non differenziato, anche se i testi letterari ricorrono anche ad ulteriori termini. Come questi illustrano ampiamente, le élite vedevano in modo usuale questi luoghi come moralmente ed esteticamente ripugnanti: sono di routine descritti come incubatori puzzolenti di sporcizia e violenza, sedizione, dissipazione, e comportamenti generalmente disdicevoli che richiamano clientela per lo più di basso livello: insomma il tipo di posto in cui nessuna persona “rispettabile” andrebbe. Poteva darsi il caso, in occasione di competizioni elettorali, ad esempio di elezioni di duumviri e di edili, che queste brigate notturne si costituissero in una sorta di burlesco comitato elettorale: seri bibi universi rogant… (“tutti quelli che si fermano a bere sino a tardi sostengono il tal candidato”): CIL IV, 58. Questo condizionamento dell’ideologia dell’élite lascia la sua impronta sul paesaggio urbano, a giudicare dalla distribuzione degli abitanti in Pompei. Damian Robinson ha avuto il merito di chiarire le varie tipologie di investimento immobiliare dell’aristocrazia, comprese le strutture di ospitalità. Da parte di A. Calabrò, è stato messo a fuoco come luoghi di vendita di bevande potessero essere integrabili con le case ad atrio e, comunque, con tutte quelle tipologie di edifici la cui articolazione consentiva una loro utilizzazione diversificata (come la casa IX, 9,1 di via di Nola)
Si ritiene per lo più che, almeno nella parte finale della storia della città, dopo il 62 d.C., un numero consistente di immobili pompeiani, quasi esclusivamente di dimensioni medio-piccole, siano stati convertiti in taverne, un fenomeno che presenta singolari analogie con quello di molte città contemporanee. Si consideri il caso della caupona di Salvius, con scene raffiguranti passatempi che avevano luogo nella taverna, come due giocatori di dadi che vengono scacciati dal titolare quando incominciano ad azzuffarsi. Nicolas Monteix, in un libro particolarmente significativo, ha dato evidenza a come la distinzione tra cauponae, hospitia e stabula ma, in particolare, tra hospitia e popinae, riguardi la loro destinazione principale di accoglienza alberghiera per i primi e di ristorazione rapida per le seconde.
La caupona di Euxinus era una struttura considerevole. Dietro la stanza con il bancone c’erano altre tre stanze, un ripostiglio e una latrina. A est della stanza del bancone due porte conducevano in una grande area aperta, apparentemente un giardino. In questa zona, che poteva anche essere raggiunta direttamente dalla strada, c’erano una seconda latrina e dei gradini che portavano a un piano rialzato.
Siamo anche in grado di postulare come il progetto (non portato a termine a causa dell’eruzione del 79) di creare nelle adiacenze di Via Nocera un grande complesso alberghiero (I14, 1. 11-15) possa essere interpretato come un sintomo del maggior rilievo che, nel corso degli anni, stava acquistando questo ingresso in città, indizio di un progressivo spostarsi degli interessi commerciali verso le zone più orientali di Pompei. Comunque, il numero particolarmente elevato di hospitia riscontrabile, oltre che nel quartiere in esame, in tutta la cittadina vesuviana, non deve indurre ad esagerare il ruolo di questa città quale centro commerciale: molte di queste strutture, infatti, dovevano essere state allestite a seguito dell’evento sismico del 62 d.C. ricordato prima, quando era divenuta impellente l’esigenza di fornire alloggi provvisori a quanti stavano ristrutturando le proprie abitazioni.
Un’analoga connessione con il terremoto deve essere ipotizzata per comprendere la presenza particolarmente elevata di edifici addetti alla vendita di cibi e bevande, attestati pressoché in ognuna delle insulae di cui si componeva il quartiere e, in linea di massima, omogeneamente distribuiti in tutta Pompei, con una particolare concentrazione lungo gli assi viari principali. Lo sviluppo delle strutture ricettive e di ristorazione poté essere propiziata, appunto, anche da eventi imprevisti.
La Regio I di Pompei merita dunque un’attenzione particolare per le sue caratteristiche molto pronunciate e per l’evoluzione che ebbe. Si tratta di un quartiere che si segnala per una tipologia decisamente commerciale per quanto siano presenti al suo interno dimore di grandi dimensioni, appartenenti ad alcune delle più grandi famiglie residenti a Pompei, come la Casa del Menandro e quella del Citarista, entrambe risultato di lunghe storie edilizie contrassegnate, verosimilmente, da accorpamenti e cessioni di proprietà: attraverso di loro, dagli originari gruppi di lotti più o meno delle medesime dimensioni, si andarono realizzando questi ampi complessi unitari. Il terremoto del 62 d.C. colpì duramente la Regio I, anche per la notevole presenza di impianti a carattere commerciale, strutture sicuramente più fragili rispetto alle abitazioni, in quanto caratterizzate, dalla presenza di focolari accesi ai pianterreni, che furono causa di violenti incendi. Strettamente connessa all’opera di ricostruzione, che in questa regio dovette essere particolarmente vivace, che portò a sovrapporre alle antiche murature realizzate in calcare sarnese e tufo di Nocera nuovi paramenti murari caratterizzati dal largo impiego di laterizi e dalla tecnica dell’incertum, fu la trasformazione di numerose abitazioni in impianti a carattere artigianale, che accentuarono il già spiccato carattere commerciale di questo quartiere. Appare quindi plausibile l’opinione formulata da Jean Andreau, che, evidenziando come le vaste opere di ricostruzione del periodo post-terremoto dovevano aver attirato molta manodopera da centri vicini con precaria residenza, sostiene come proprio tale manovalanza dovesse costituire una buona parte della clientela a cui queste strutture si rivolgevano. Nella medesima ottica troverebbe spiegazione anche la notevole presenza di lupanari connessi alle cauponae in quanto, in tempi normali, il loro numero doveva essere di gran lunga inferiore, come sembra attestare l’esempio di Ostia, anche se va detto che, in numerosi casi, la presenza di questo genere di locali resta dubbia, in quanto risulta affidata solo al rinvenimento all’interno del locale, o nelle immediate adiacenze, di scritte a carattere erotico. Per un numero particolarmente elevato di esercizi commerciali (la maggioranza relativa di tutte le strutture a carattere produttivo presenti nella Regio I), tuttavia, la loro notevole quantità costituisce di per sé un dato interessante in quanto, se confrontato con quello delle abitazioni, conferisce a questo quartiere quel carattere commerciale che sembra essere la sua caratteristica precipua, almeno nella sua ultima fase di vita. Si tratta del periodo a cui risale la costruzione di molte di queste tabernae, realizzate scorporando dalle abitazioni private i cubicoli ai lati degli ingressi principali. Nella stragrande maggioranza dei casi sono impianti di piccole dimensioni, probabilmente quasi tutti destinati alla vendita al dettaglio, i quali, non diversamente dalle strutture preposte alla ristorazione, tendono a disporsi soprattutto lungo gli assi viari principali, in particolare lungo Via dell’Abbondanza, pur essendo presenti anche in Via di Stabia.
Per concludere vorrei ribadire come i meriti del libro di LG siano davvero molteplici a cominciare da una sapiente e accorta utilizzazione incrociata delle fonti letterarie e giuridiche insieme a quelle archeologiche. Si tratta di un contributo significativo a un aspetto rilevante della storia sociale romana che meritava riconsiderazione.

Arnaldo Marcone, Università Roma Tre

Publié dans le fascicule 2 tome 122, 2020, p. 622-626