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A sei anni di distanza da quella degli Epitrepontes, William Furley (F.) dà alle stampe una nuova edizione della Perikeiromene, che può considerarsi il secondo frutto dei suoi studi menandrei soltanto se si tralasciano i numerosi contributi sul poeta della Nea da lui pubblicati negli ultimi anni in riviste, atti di convegni e Festschriften.

L’opera si presenta suddivisa in quattro sezioni[1] seguite dalla bibliografia e dagli indici (dei vocaboli inglesi e greci e dei passi citati).

Nella parte introduttiva F. affronta i principali temi concernenti la commedia, considerandoli di solito da angolazioni originali pur senza trascurare gli studi precedentemente compiuti su di essi. Il personaggio della protagonista Glicera viene posto subito al centro della riflessione. In particolare, F. riesce a mettere efficacemente in luce gli accorgimenti, drammatici e non, impiegati dal commediografo per delineare il ritratto dell’eroina: mostra ad esempio come, al pari di altre figure femminili al centro della maggior parte delle commedie pervenuteci, questa non possa che risultare particolarmente cara al pubblico per le virtù morali che la contraddistinguono ma soprattutto per la forza rivelata nel difenderle anche a dispetto della fragilità della propria condizione sociale. Per questa ragione, F. si sofferma sullo status legale di Glicera e degli altri personaggi, il quale, pur rimanendo sullo sfondo e lasciando spazio soprattutto alle loro ragioni psicologiche, è a ragione ritenuto fondamentale per una piena comprensione dei fatti: F. osserva come sin dall’inizio della commedia si insista sulla duplicità della condizione di παλλακή di Glicera, che se da una parte le dona la libertà di abbandonare il proprio uomo senza che ciò abbia conseguenze legali, dall’altra costituisce un fattore di debolezza per una donna sola al mondo che, dopo la fuga, resta priva di un κύριος.

Anche dell’atto di violenza subìto dalla fanciulla da parte del suo uomo, quello del taglio dei capelli, F. discute ampiamente il significato sociale e relazionale. Dopo aver passato in rassegna le interpretazioni più accreditate al riguardo – da quella che vede nel gesto una forma di punizione dell’adulterio a quella secondo la quale esso aveva l’effetto di equiparare la vittima agli schiavi, spesso puniti nello stesso modo – F. se ne discosta, e, sulla base del raffronto con situazioni analoghe presenti in altri testi antichi, sostiene che il suo carattere violento derivi semplicemente dal fatto che l’offensore fa valere la propria superiorità sociale trattando il corpo della persona amata, da cui si ritiene tradito, come oggetto su cui sfogare i propri istinti di vendetta, ossia sottraendo, insieme con la bellezza, dignità ed autostima alla vittima.

Oggetto di uno dei paragrafi introduttivi è inoltre il personaggio di Pateco, che nel corso della vicenda si scoprirà essere il padre di Moschione e Glicera: F. riprende la tesi sostenuta da Schmidt[2] e da E. Capps[3], che lo identifica con il marito di Mirrine (l’affermazione contenuta a p. 24 n. 89, secondo cui Blanchard[4] attribuirebbe alla maggioranza dei più recenti commentatori questa tesi, è errata: lo studioso francese scrive al contrario che è il Filino nominato al v. 1026 della commedia ad essere generalmente visto come il marito di Mirrine). A tal proposito non mi sembra che le obiezioni sollevate a questa tesi siano superate dagli argomenti citati da F.: è vero che se Pateco fosse il padre adottivo di Moschione sarebbe più facile per lui organizzarne rapidamente le nozze nel finale della commedia, ma non vedo come il fatto che ai vv. 708-19 Glicera si riferisca al marito di Mirrine come ad una persona diversa dal vecchio possa essere spiegato con la sua intenzione “to maintain the fiction that Moschion is their legitimate son” (p. 26).

Adeguata considerazione ricevono altresì i problemi legati alla rappresentazione della commedia, dalla scena al numero degli attori e alle maschere. A tal proposito, è interessante osservare che, in accordo con le scelte testuali effettuate a proposito del V atto, F. si mostra favorevole alla tesi di Webster[5] secondo la quale oltre alle case di Polemone e Mirrine la scena ospitava una locanda.

Non mancano, inoltre, né una riflessione sulla comicità dell’opera né una presentazione del linguaggio e della metrica in essa impiegati. Nella prima si sottolinea come il comico venga amplificato soprattutto attraverso il gioco di specchi deformanti cui le situazioni e i personaggi della commedia sono sottoposti nei confronti di quelli di diversi generi di letteratura seria, dalla tragedia all’epica. A proposito del linguaggio, F. porta all’attenzione del lettore brani della commedia che mostrano come il poeta tenda ad impiegare l’eufemismo (o in generale l’understatement) soprattutto riguardo a temi come il denaro e più ancora il sesso. Il fatto che già in precedenza (p. 31) siano stati discussi i vv. 482-5, contenenti gli insulti, conditi da pesanti allusioni sessuali, rivolti dal personaggio di Sosia all’etera Abrotono (che vengono analizzati a fondo anche nel commento alle p. 136-7), rende superflua una loro menzione in queste pagine per sottolineare come talvolta il commediografo indulga a cambiamenti di registro al fine di caratterizzare una figura.

Infine, prima di procedere ad una breve descrizione delle fonti del testo e dei criteri della sua costituzione e traduzione, F. affronta la dibattuta questione della datazione della Perikeiromene. Dopo aver discusso le diverse tesi degli studiosi su questo problema, da quella formulata da Schwartz quasi novant’anni or sono[6] a quella recente di Dixon[7], F. si dichiara favorevole ad assegnare, con quest’ultimo, la commedia al periodo della maturità artistica di Menandro, benché non tanto sulla base di allusioni ad eventi politico-militari tutt’altro che certe nel testo, bensì riflettendo sulla straordinaria popolarità testimoniata per la commedia da citazioni e richiami in testi antichi e raffigurazioni parietali.

Nel corso di tutta l’introduzione si utilizzano ampiamente testi antichi contenenti riferimenti diretti o indiretti a questa commedia (o in generale alla produzione menandrea) tanto per interpretarne la vicenda quanto per restituirne il testo. Uno dei paragrafi iniziali è ad esempio dedicato alle lettere d’amore che il sofista Alcifrone ha immaginato scambiate tra Menandro e la sua donna Glicera (Alciphr. IV, 18 e 19), nelle quali F. individua più di un riferimento alla Perikeiromene: oltre a ritenere, infatti, che nella lettera dell’etera l’opera indicata come τὸ δρᾶμα ἐν ᾧ ἐμὲ γέγραφας (IV, 19, 20) sia appunto questa, vede in quella indirizzatale da Menandro allusioni al plot della Perikeiromene e in particolare ai versi del fr. 96 K.-A., che per questa ragione attribuisce alla sua prima scena. Ora, l’attribuzione a me pare del tutto plausibile dato che nel frammento ci si rivolge ad un personaggio di nome Glicera e che, come F. ben spiega, gli argomenti usati contro questa attribuzione sono stati invalidati da recenti scoperte o risultano piuttosto deboli (ad es. a proposito della comparsa in scena di Polemone e Glicera nei versi che precedono il prologo); quello che mi sembra meno certo è il riferimento della fittizia lettera di Menandro a quei versi e in generale alla trama della commedia (il solenne giuramento compiuto dal personaggio del commediografo nella lettera attraverso la ripetizione delle invocazioni introdotte da μά si trova – come lo stesso F. non trascura di sottolineare a p. 89 – in diversi passi menandrei; quanto ai litigi e ai modi di riappacificazione tra Menandro e l’amata citati nella lettera, essi hanno tutta l’aria di riprendere luoghi comuni sulle schermaglie tra innamorati piuttosto che allusioni alla lite tra Polemone e Glicera con cui si apre la commedia).

La seconda sezione contiene il testo critico della commedia, accompagnato dall’indicazione delle entrate e delle uscite attraverso l’uso delle immagini delle maschere dei parlanti come ricostruibili dalle testimonianze a nostra disposizione. La caratteristica più notevole di questa edizione è senz’altro il fatto che F. non si adagia sulle proposte di integrazione o correzione del testo tràdito già avanzate neanche quando queste riscontrino ampio consenso tra gli editori, mostrandosi al contrario sempre pronto a cimentarsi con le non poche difficoltà da esso poste e ad esplorare con creatività e competenza le varie possibilità di ricostruzione che proprio in ragione del numero e dell’ampiezza delle lacune si offrono al filologo. I supplementi convincenti o plausibili da lui proposti sono in gran numero.

Come già nel testo degli Epitrepontes, F. stampa in grigio le integrazioni ritenute particolarmente dubbie. Grazie all’uso misurato di questo accorgimento riesce a conferire una continuità ed una intelligibilità maggiori ad un testo spesso gravemente mutilo (il che è soprattutto d’ausilio per passi il cui senso sia grosso modo chiaro, come ad es. i vv. 291, 378, 724-5 ecc.) e nel contempo ad avvertire il lettore dell’elevato grado di incertezza di alcune congetture.

Riprendendo un’idea di Webster, F. colloca il testo di P. Oxy. 2658 all’interno della lacuna che si apre al v. 827. Webster fondava la sua ipotesi di attribuzione soltanto sulla presenza, nei resti trasmessi dal papiro, dei nomi di Doride e Glicera e sul fatto che gli ultimi versi in esso riconoscibili suggeriscono una situazione compatibile con il dialogo tra Polemone e Doride col quale, grazie alla seconda colonna di P. Oxy. 211, il testo della commedia ricomincia (al v. 976). F. unisce a questi argomenti una riflessione di carattere papirologico che accresce la plausibilità della sua scelta: osservando corrispondenze o compatibilità presenti nei resti dei due papiri ossirinchiti e numerando i versi sulla base di quelli a noi già noti di P. Oxy. 211, identifica nella prima colonna di quest’ultimo e in P. Oxy. 2658 quel che rimane dei vv. 925-971 della commedia. Le parole in essi contenute, attribuite a Polemone, lasciano pensare che questi esca da una locanda, che sarebbe secondo F. il luogo in cui il soldato si è ritirato dopo l’aggressione a Glicera.

In apparato l’utilizzo delle sigle illustrate alle pagine 39-40 non avviene sempre in modo coerente: ad alcune di esse viene talora aggiunto l’anno di pubblicazione (ad es. “Kuiper (1930)” a p. 46; soltanto frutto di refuso sembra essere, nelle due pagine citate, l’accostamento della sigla “Arnott” all’articolo di Arnott[8], mentre è chiaro che essa viene utilizzata per l’edizione Loeb della commedia, uscita nel 1996), altre vengono spesso sostituite senza che se ne spieghi la ragione (ad es. il commento di Gomme-Sandbach, per il quale era stata scelta la sigla “G.-S.”, viene più volte indicato come “Sandbach in comm.”).

I versi da 1005b sino alla fine sono numerati in modo erroneo tanto nel testo quanto in apparato.

La traduzione inglese è in versi liberi, il che, come F. stesso avverte (p. 41), può avere avuto come conseguenza qualche difetto di accuratezza rispetto alle traduzioni in prosa, ma risulta utile a dare almeno un’idea del ritmo dei versi menandrei.

Nel commento F. discute le diverse proposte di ricostruzione del testo, difendendo le proprie con argomenti di vario genere (non solo paleografici, ma anche scenici, drammatici, linguistici, ecc.), ma si preoccupa anche di illustrare i problemi riguardanti la scena, l’intreccio, la caratterizzazione dei personaggi, il linguaggio, lo stile, la metrica, pur senza dilungarsi se non sulle questioni di maggior rilievo. Singoli punti suscitano qualche osservazione.

Vv. 174-5 Come già nell’introduzione (alle p. 29-30), nel commento a questi versi F. accosta la situazione in essi descritta a proposito di Polemone, che lo vede fuori di casa circondato dagli amici che gli fanno preparare un pranzo, ai comportamenti tenuti da Achille nell’Iliade (sia in seguito alla lite con Agamennone sia dopo la morte di Patroclo). Stupisce il fatto che non ci si soffermi abbastanza, invece, sulla prossimità tra la situazione del soldato e quella vissuta all’inizio degli Epitrepontes dal giovane Carisio, che intende anch’egli punire l’amata per la sua presunta infedeltà e, abbandonato il tetto coniugale, tenta (senza riuscirvi) di affogare il proprio dispiacere banchettando insieme all’amico Cherestrato presso di lui.

Vv. 328-9 F. cita diversi passi in cui il verbo καταψεύδομαι compare, con il genitivo della persona, nel senso di “allege falsely against”, dimenticando tuttavia di precisare che nel suo testo esso, con la stessa costruzione, sarebbe singolarmente da intendersi nel senso di “lie to” (come si evince dalla traduzione a p. 72).

V. 347 Non sono sicura che in questo caso λαλέω non abbia l’accezione negativa di “cianciare, parlare a vanvera”, come sostenuto da F. (che traduce, a p. 72, “now you may have a point”): che ragione ha Moschione di minacciare Davo se ritiene che al momento presente ricominci a dire cose sensate?

V. 533 Sarebbe stato opportuno ricordare che usi ironici di καλός sono presenti anche in Menandro (ad es. in Asp. 308 e Dysk. 514-5) oltre che nei passi di Euripide citati.

V. 759 A proposito dell’esclamazione νὴ τὸν Δία τὸν Σωτῆρα pronunciata da Pateco quando comincia ad accorgersi di aver ritrovato sua figlia, probabilmente è vero che in questo caso “the choice of god (Zeus Saviour) indicates that the shock which Pataikos has just received is a pleasant one, one pointing in the direction of salvation rather than disaster”. Per non ingenerare nel lettore non specialista la convinzione che l’esclamazione venga usata sempre con questo valore, sarebbe stato a mio parere utile citare anche luoghi in cui essa ha tutt’altro tenore, come ad es. Epit. 359.

P. 165 Ritengo del tutto plausibili le ricostruzioni immaginate da F. per le scene mancanti dell’ultimo atto di questa commedia, ma mi sembra fortemente riduttivo etichettare il confronto tra padre e figlio contenuto nel V atto della Samia come una presa in giro o una punizione di Demea.

V. 996 Mentre nella Perikeiromene l’animale sacrificale viene esplicitamente indicato come ὗς, nel Dyskolos è pressoché certamente un ovino (lo si designa infatti con il termine πρόβατον ai vv. 393, 438, 776 e se ne descrive l’abitudine di mangiare le foglie degli alberi che trova sul suo cammino) e non un “pig” come scritto da F.

Se per la sua pregevolezza scientifica questo libro stimolerà senza dubbio nella critica menandrea la riflessione e il dibattito sulle questioni sollevate dal testo e dalla vicenda della Perikeiromene, la ricchezza dei contenuti e l’accessibilità, dovuta tra l’altro al costante impiego di un linguaggio semplice e di uno stile piano, lo rendono un valido ed aggiornato strumento di lavoro per chi si accosti per la prima volta a questa commedia.

Giada Sorrentino

[1]. Introduction, p. 1-41, Text, p. 43-66, Translation, p. 67-84, Commentary, p. 85-181.

[2]. In «Menanders Perikeiromene», H 44, 1909, p. 403-44.

[3]. Four Plays of Menander, Boston 1910, p. 141-142.

[4]. In Ménandre, Tome II, Paris 2013, p. 231.

[5]. «Notes on Menander», in O.S. Due, H. Friis Johansen, B. Dalsgaard Larsen eds., Classica et Mediaevalia Francisco Blatt dedicata, Copenhague 1973, p. 132-139.

[6]. E. Schwartz, «Zu Menanders Perikeiromene», H 64, 1929, p. 1-15.

[7]. M. D. Dixon, «Menander’s Perikeiromene and Demetrios Poliorketes», Classical Bulletin 81, 2005, p. 131-43.

[8]. «Further notes on Menander’s Perikeiromene», ZPE 109, 1995, p. 11-30.